Tratta dall’omonima rassegna ideata dall’artista e curatore indipendente Francesco Arena, la rubrica “OTHER IDENTITY – Altre forme di identità culturali e pubbliche” vuole essere una cartina al tornasole capace di misurare lo stato di una nuova e più attuale grammatica visiva, presentando il lavoro di autori e artisti che operano con i linguaggi della fotografia, del video e della performance, per indagare i temi dell’identità e dell’autorappresentazione. Questa settimana l’ospite intervistata è Silvia Sasso.
Il nostro privato è pubblico e la rappresentazione di noi stessi si modifica e si spettacolarizza continuamente in ogni nostro agire. Qual è la tua rappresentazione di arte?
«Io non credo che il nostro privato sia pubblico; credo piuttosto che il nostro io si esprima anche nel pubblico, nel modo di rappresentarci, di confrontarci di interagire con il mondo esterno, con l’altro da sé. In questo senso, allora sì, il nostro privato può diventare pubblico, può lasciare una piccolissima traccia del nostro “essere vivente “nella realtà che abitiamo. Ognuno di noi lo fa, a proprio modo, con gli strumenti che ha e usando il linguaggio che sente più profondamente vicino alla propria natura.
Il mio è anche la fotografia. Fotografando cerco di raccontare quello che vivo, che sento, che osservo dal mio punto di vista. E cerco di farlo sussurrando, non urlando, affinché l’altro possa accostarsi ai miei pensieri, al mio sentire senza timore e rintracciare in esso una parte del proprio pensiero, del proprio vissuto.
Ecco, forse per me arte significa questo: rendere – più o meno- universale un sentire individuale affinché l’uno o il nessuno possano diventare centomila».
Creiamo delle vere e proprie identità di genere che ognuno di noi sceglie in corrispondenza delle caratteristiche che vuole evidenziare, così forniamo tracce. Qual è la tua “identità” nell’arte contemporanea?
«Sicuramente quella di una donna. I miei primi scatti sono stati ritratti di donne, così come la mia prima personale RITRATTE. Ho indagato e rappresentato quella metà di mondo che veglia sulla vita e sulla bellezza, resistendo al quotidiano con la propria essenziale femminilità. Con il tempo, le mie donne hanno perso la specificità del singolo e qualsivoglia ancoraggio al reale e la mia narrazione è diventata quella dell’io femminile in qualunque dimensione spazio -temporale, per rendere la femminilità universalmente riconoscibile. Infine, ho in qualche modo “scomposto” la femminilità esplorando le relazioni nascoste fra il corpo della donna e vari oggetti esterni, svelando nuove prospettive sul modo di percepire la femminilità: la similitudine anatomica fra una foglia di verza e le pieghe della schiena, o la vicinanza concettuale fra una morbida mozzarella e un seno ancora acerbo. Sono proiezioni visive e quindi semantiche che stabiliscono un dialogo, una relazione fra l’essere e la rappresentazione dello stesso.
Con questo non sto dicendo che fotografo solo donne- anzi, le mie opere vedono soggetti e temi diversi da quelli squisitamente femminili, con un chiaro ancoraggio al reale- ma il mio resta un punto di vista femminile, semplicemente perché sono una donna e non potrei mai raccontare niente che non sento nella pancia, sotto la pelle e attraverso il mio vissuto che è, appunto, quello di una donna».
Quanto conta per te l’importanza dell’apparenza sociale e pubblica?
«Il mezzo è il messaggio, diceva Marshall McLuhan. In questo senso, il nostro modo di apparire è una rappresentazione del sé che decidiamo di mostrare. Sta quindi a noi, scegliere quanto ciò che mostriamo sveli o celi la realtà, sia costruzione illusoria o manifestazione di verità.
Se per apparenza sociale e pubblica si intende allora espressione pubblica di pensiero, allora credo che sia un dovere sociale contribuire al sentire collettivo, anche contestandolo. Ma se nel farlo, “un applauso del pubblico pagante” non lo sottolineerà, pazienza! Basta che il messaggio sia arrivato ad una sola persona, che abbia stimolato in lei una nuova riflessione, un nuova emozione, un nuovo spunto di approfondimento per decretare il successo del mezzo (nel mio caso la fotografia)».
Il richiamo, il plagio, la riedizione, il ready made dell’iconografia di un’identità legata al passato, al presente e al contemporaneo sono messi costantemente in discussione in una ricerca affannosa di una nuova identificazione del sé, di un nuovo valore di rappresentazione. Qual è il tuo valore di rappresentazione oggi?
«Nuovo perché? E soprattutto in che senso? Se attraverso le proprie opere si rappresenta il proprio sé, non è forse vero che l’identità si costruisce attraverso esperienze, individuali o collettive, attraverso ciò che si vede, si conosce, si vive, si sente? E allora non c’è nulla di assolutamente nuovo nella costruzione di una propria unicità. Siamo fatti di innumerevoli substrati di vissuto che ci rendono meravigliosamente irripetibili, sta a noi identificarci con questa singolarità e, nel caso degli artisti, rappresentarla con autenticità».
ll nostro “agire” pubblico, anche con un’opera d’arte, travolge il nostro quotidiano, la nostra vita intima, i nostri sentimenti o, meglio, la riproduzione di tutto ciò che siamo e proviamo ad apparire nei confronti del mondo. Tu ti definisci un’artista agli occhi del mondo?
«Mah, credo che la parola artista sia davvero abusata. Ricorriamo all’uso di questa parola per indicare tutti coloro che sanno fare molto bene qualcosa: quello chef è un artista dell’impiattamento, quel cantante è un artista dei vocalismi, quell’attore è un artista della comicità. Oppure la si usa come sinonimo di creatività o originalità. Io ho solo bisogno di esprimere ciò che sento e che vivo e, non sapendo né disegnare né scrivere, fotografo. Tutto qui. Pur non amando le definizioni che vivo come restrizioni della complessità dell’essere, preferirei piuttosto essere identificata come una fotografa autentica, una fotografa cioè che racconta la propria sostanza attraverso la forma del linguaggio visivo».
Quale “identità culturale e pubblica” avresti voluto essere oltre a quella che ti appartiene?
«Non saprei. Quando ero piccola e poi più avanti fino all’adolescenza, quando incontravo una persona che per qualche ragione mi affascinava, giocavo sempre a immaginare di essere lei. E lo facevo con dovizia di particolari, costruendo personalità e quindi vite sempre più interessanti della mia. Poi, quando la conoscenza si approfondiva, scoprivo che per quanto imperfetta fosse la mia di vita, in fondo era quella in cui mi sentivo più a mio agio, forse semplicemente perché era quella che conoscevo e vivevo. È un po’ cosi anche oggi: sono tanti anni che sto con me e mi ci sono affezionata nonostante tutto. Quello che sicuramente avrei voluto e vorrei ancora è avere più tempo per osservare, per approfondire e quindi per fotografare».
Ho lavorato nel “magico mondo” dell’advertising per più di 20 anni e forse proprio per questo ho iniziato a fotografare. Grazie alla pubblicità, infatti, ho avuto la fortuna di lavorare con grandi professionisti: art directors, fotografi e registi mi hanno insegnato a guardare il mondo con attenzione e curiosità e a restituire l’interpretazione dello stesso da un punto di vista più originale, il proprio. Prendere in mano una macchina fotografica e indagare quale fosse la mia visione, è stata più un’urgenza emotiva che una scelta razionale. I miei scatti sono perciò prima un’esplorazione personale, poi un messaggio da condividere con l’altro.
Della pubblicità conservo il rigore, la pulizia stilistica e sicuramente la volontà di dar vita a contenuti chiari, sintetici ma allo stesso tempo capaci di evocare emozioni comuni nelle quali chiunque possa rintracciare un pezzettino di sé stesso e del proprio mondo. Quasi tutte le mie immagini hanno layer interpretativi sovrapposti, un po’ come una cipolla: il mio obiettivo è restituire l’immagine della cipolla, suggerendo che, sfogliandola, è possibile leggere altri e più profondi messaggi; ma solo se si ha la voglia di farlo. Per me resta cruciale proporre la mia cipolla.
Nel maggio del 2019 la mia prima personale Ritratte nella galleria romana Spazio Arte S.U ha confermato la scelta di un percorso autoriale presentato nel novembre dello stesso anno durante la manifestazione AltaRoma a Roma e, nel febbraio del 2020 a Lecce nell’ambito dell’evento culturale Art Talk. Nell’agosto del 2020 partecipo al progetto “Tempory Art” esponendo un lavoro sul lockdown “Vista da dentro” presso gli spazi dell’Associazione culturale Il Frantoio a Capalbio (Grosseto). Nell’aprile 2022, la collettiva “Scent of a Woman” con l’esposizione di “Let it meat” un lavoro che affronta il tema dei disordini alimentari.
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