Tratta dall’omonima rassegna ideata dall’artista e curatore indipendente Francesco Arena, la rubrica “OTHER IDENTITY – Altre forme di identità culturali e pubbliche” vuole essere una cartina al tornasole capace di misurare lo stato di una nuova e più attuale grammatica visiva, presentando il lavoro di autori e artisti che operano con i linguaggi della fotografia, del video e della performance, per indagare i temi dell’identità e dell’autorappresentazione. Questa settimana intervistiamo Stefania Cerea.
Il nostro privato è pubblico e la rappresentazione di noi stessi si modifica e si spettacolarizza continuamente in ogni nostro agire. Qual è la tua rappresentazione di arte?
«Nella mia personale esperienza, l’arte nasce dall’urgenza di ripercorrere ciò che ho vissuto, di tradurlo in immagini e di osservarle. È un modo per vivere con maggiore intensità la vita, smontare schemi mentali, affrontare il dolore, trovare risorse per vivere in pienezza. Questo non significa che mi lasci travolgere da ciò che provo, da ciò che penso o da ciò che faccio. Al contrario, decanto le mie emozioni, i miei pensieri e le mie azioni, per poterli poi rappresentare. In fondo, l’arte per me è una sorta di psicoterapia del tutto gratuita, che al contempo assume la valenza di un atto creativo, e dà vita a immagini in grado di assumere un carattere universale».
Creiamo delle vere e proprie identità di genere che ognuno di noi sceglie in corrispondenza delle caratteristiche che vuole evidenziare, così forniamo tracce. Qual è la tua “identità” nell’arte contemporanea?
«Nel 2013, quando ho iniziato a fotografarmi, ero alla ricerca di altre identità oltre a quelle che avevo accettato più o meno passivamente fino a quel momento. Sentivo l’esigenza di vedermi con altri occhi, ma dato che non mi sembrava ci fosse granché da scoprire, ho smesso di puntarmi addosso l’obiettivo per diversi anni. Nel 2018, dopo un lungo percorso costellato da diverse relazioni, ho sentito l’esigenza di rappresentare ciò che stavo comprendendo su me stessa. E così, da quel momento ho iniziato a realizzare altri autoritratti, che ruotavano spesso attorno a temi dicotomici: i condizionamenti interiorizzati e la conquista della libertà, l’apatia e il desiderio, l’attaccamento e l’autonomia emotivi, la fragilità e la potenza, l’inerzia e il cambiamento. Direi, quindi, che finora la cifra caratteristica della mia identità artistica sia stata la dualità».
Quanto conta per te l’importanza dell’apparenza sociale e pubblica?
«Conta nella misura in cui si è in grado di non “dare in pasto” le proprie esigenze espressive alle aspettative altrui. Nel 2013, quando ho iniziato ad autoritrarmi, non avrei mai pensato di pubblicare una mia fotografia su un social media. Non avevo un account Facebook e l’avrei aperto unicamente nel 2015, ma solo per accedere a Tinder. Nel 2018, quando ho cominciato a fotografarmi di nuovo, ho sentito l’esigenza di pubblicare su Facebooki miei scatti. L’intenzione era quella di condividere eventi normalmente relegati alla sfera privata (come l’orgasmo) con un pubblico il più ampio possibile.
Col tempo, tuttavia, mi sono ritrovata in una sorta di ingranaggio perverso, nel quale i tempi e i modi di produrre le immagini erano condizionati pesantemente non solo dagli standard della community di Facebook, ma anche dalle aspettative di coloro che mi seguivano e che seguivo, di cui ho finito per cercare l’approvazione. Nel novembre del 2019, quando questo meccanismo mi è diventato chiaro, ho smesso di pubblicare le mie fotografie. Il fatto che un curatore, Francesco Arena, con il quale non avevo alcun tipo di rapporto, mi abbia chiesto di partecipare a una mostra, non solo mi ha fatto un grande piacere, ma mi ha dato la possibilità di esporre il mio lavoro con la stessa leggerezza degli inizi (e senza censure!)».
Il richiamo, il plagio, la riedizione, il ready made dell’iconografia di un’identità legata al passato, al presente e al contemporaneo sono messi costantemente in discussione in una ricerca affannosa di una nuova identificazione del sé, di un nuovo valore di rappresentazione. Qual è il tuo valore di rappresentazione oggi?
«La matrice della mia arte è personale e autobiografica. Ciò che ho vissuto nella mia sfera più intima e le emozioni che ho provato ne costituiscono il punto di partenza. Alla base della mia opera sta dunque la verità, non in senso assoluto, ma come percorso di vita. Credo, tuttavia, che la verità non abbia bisogno né del realismo, né dell’autenticità. Per questo motivo, pur essendo personale e autobiografica, la mia opera non rappresenta ciò che accade “in presa diretta” nella mia vita, ma raffigura delle messe in scena, attraverso le quali ricreo una situazione ed evoco un’emozione. E talvolta rappresenta situazioni che non ho mai vissute, ma in grado di rappresentare con più precisione ed efficacia ciò che ho provato».
ll nostro “agire” pubblico, anche con un’opera d’arte, travolge il nostro quotidiano, la nostra vita intima, i nostri sentimenti o, meglio, la riproduzione di tutto ciò che siamo e proviamo ad apparire nei confronti del mondo. Tu ti definisci un’artista agli occhi del mondo?
«Sarà banale affermarlo, ma il mondo è vario. I miei autoritratti hanno prodotto nel corso del tempo e nelle persone che li hanno osservati le più svariate reazioni. Ricordo ancora i messaggi ricevuti attraverso Messenger quando ho cominciato a pubblicare le mie fotografie su Facebook (foto di membri maschili, profferte sessuali, tentativi di approcciarmi elogiando il mio lavoro, e così via). Col tempo, più ho acquisito contatti con persone interessate alla fotografia e più in generale all’arte, più questo tipo di messaggi si è ridotto, fin quasi a sparire. Inoltre, non sono mancate reazioni di più o meno manifesta riprovazione da parte di persone a me molto vicine, le quali, forse proprio perché abituate a vedermi in un certo modo, non riuscivano ad accettare le mie altre “identità”. Sono state persone poco o per nulla conosciute a farmi sentire un’artista, grazie alla loro curiosità, alla voglia di capire ciò che stavo facendo, al tempo che hanno dedicato a discutere le mie fotografie, al racconto di quanto hanno provato osservandole. Agli occhi di queste persone sì, credo di essere un’artista».
Quale “identità culturale e pubblica” avresti voluto essere oltre a quella che ti appartiene?
«Come già detto, da anni la mia identità è in cambiamento. Quindi, non riesco a definire precisamente i suoi tratti distintivi. E forse è bene così. Se alcuni punti fermi mi sono necessari per non impazzire, è anche vero che essere aperta alla trasformazione mi è necessario per sentirmi viva. Credo, comunque, che sarebbe interessante sperimentare, anche per breve tempo, identità molto diverse da quella attuale. Certo, richiederebbe una forzatura, una sorta di rappresentazione, una specie di prova attoriale. Ma sono convinta che mi consentirebbe di esplorare il mio potenziale identitario, che è limitato dalle cornici personali, sociali, culturali, in cui inevitabilmente mi trovo inserita».
Stefania Cerea vive e lavora a Milano. Laureata in Architettura, è ricercatrice. Si avvicina alla fotografia nel 2013, nel bel mezzo di una crisi depressiva. In quel periodo acquista uno smartphone e inizia ad autoritrarsi, sforzandosi di sorridere. Osservando gli scatti, pur sapendo che sono dei “falsi”, si sente più reale e in relazione col mondo di quanto non fosse mai stata prima. Al termine della fase depressiva smette di autoritrarsi.
Nel 2018 riprende a fotografarsi, con lo smartphone e poi con una mirrorless. Lo fa soprattutto durante l’orgasmo. Cresciuta in un contesto piuttosto ostile al piacere, guardarsi godere rappresenta un modo per vincere il senso di colpa. Pubblica su Facebook le immagini del suo volto durante l’orgasmo, per condividere un evento comunemente relegato alla sfera privata con un pubblico il più ampio possibile, allo scopo di affermarne la bellezza, la profondità e la potenza. Da quel momento realizza e pubblica altri autoritratti, che ruotano spesso attorno a temi dicotomici: i condizionamenti interiorizzati e la conquista della libertà, l’apatia e il desiderio, l’attaccamento e l’autonomia emotivi, la fragilità e la potenza, l’inerzia e il cambiamento.
Nel 2019 inizia un percorso che la porta a indagare i rapporti fra la propria identità e l’ambiente che la circonda. Fino al 2022, per volere dell’autrice niente di quanto prodotto da allora è stato reso pubblico. Invitata dal curatore e visual artist Francesco Arena, partecipa con alcune immagini tratte dal progetto “Inner Suburb|SuburbanInterior” (2020) alla terza edizione di “Other Identity – Altre forme di identità culturali e pubbliche” (19 Marzo-16 Aprile 2022, Genova, Guidi&Schoen-Arte Contemporanea e PRIMO PIANO di Palazzo Grillo).
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