Tratta dall’omonima rassegna ideata dall’artista e curatore indipendente Francesco Arena, la rubrica “OTHER IDENTITY – Altre forme di identità culturali e pubbliche” vuole essere una cartina al tornasole capace di misurare lo stato di una nuova e più attuale grammatica visiva, presentando il lavoro di autori e artisti che operano con i linguaggi della fotografia, del video e della performance, per indagare i temi dell’identità e dell’autorappresentazione. Questa settimana abbiamo raggiunto Chiara Vitellozzi.
Il nostro privato è pubblico e la rappresentazione di noi stessi si modifica e si spettacolarizza continuamente in ogni nostro agire. Qual è la tua rappresentazione di arte?
«La mia rappresentazione di arte credo sia un insieme di simbologie, prettamente legate al visivo e all’immagine di corpo, che provano a riconoscersi e a farci riconoscere in un sentire universale».
Creiamo delle vere e proprie identità di genere che ognuno di noi sceglie in corrispondenza delle caratteristiche che vuole evidenziare, così forniamo tracce. Qual è la tua “identità” nell’arte contemporanea?
«È legata al mettersi a nudo, letteralmente quanto metaforicamente. In un periodo storico in cui spesso veniamo rappresentati attraverso i veli che indossiamo (abiti e maschere), attraverso un’immagine possiamo spogliarci di ogni strato, divenendo vulnerabili».
Quanto conta per te l’importanza dell’apparenza sociale e pubblica?
«Nulla».
Il richiamo, il plagio, la riedizione, il ready made dell’iconografia di un’identità legata al passato, al presente e al contemporaneo sono messi costantemente in discussione in una ricerca affannosa di una nuova identificazione del sé, di un nuovo valore di rappresentazione. Qual è il tuo valore di rappresentazione oggi?
«Credo sia da ricercare nel fatto che ogni rappresentazione attesti la contemporaneità in cui si presenta. La testimonianza di un’esistenza, di uno sguardo e pensiero sul mondo. Il valore del qui ed ora, che però grazie alla fotografia, volente o nolente, viene trasformato in un “ovunque” spaziale e temporale».
ll nostro “agire” pubblico, anche con un’opera d’arte, travolge il nostro quotidiano, la nostra vita intima, i nostri sentimenti o, meglio, la riproduzione di tutto ciò che siamo e proviamo ad apparire nei confronti del mondo. Tu ti definisci un’artista agli occhi del mondo?
«Preferisco definirmi una voyeur».
Quale “identità culturale e pubblica” avresti voluto essere oltre a quella che ti appartiene? «Caravaggio. (Oppure quella che lo spiava in segreto mentre dipingeva)».
Classe 1983, sono nata in una piccola città sul mare in Toscana. All’età di 19 anni mi trasferisco a Firenze per frequentare l’università di architettura ed è qui che rimango affascinata dal rapporto con la forma, dalla materia disegnata dalla luce, dai dettagli nascosti da una lama di nero. Da sempre vedo tutto così: o è luce o è buio.
La fotografia diventa a poco a poco la mia ossessione ed il mio linguaggio espressivo. Quella che parla al posto mio quando sono silenziosa. Inizio a lavorare come fotografa di architettura per l’università di Firenze e per alcuni studi di architettura, per poi concentrarmi sull’aspetto che sento più mio da sempre, ovvero il ritratto. Apro quindi un mio studio a Livorno, dove mi occupo principalmente di ritratti su commissione, collaborando con la regione toscana e con altre realtà locali come tutor e docente di fotografia.
Parallelamente la mia ricerca si concentra sull’ autoritratto, sul corpo, sulle infinite contraddizioni. Quando mi fotografo non fotografo me, fotografo quello che vorrei essere e che ancora non so di volere. Quando fotografo altro, fotografo quello che sento, vivo, penso.
Attualmente lavoro e vivo a Milano.
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