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Other Identity #80. Altre forme di identità culturali e pubbliche: intervista a Isobel Blank
Fotografia
Tratta dall’omonima rassegna ideata dall’artista e curatore indipendente Francesco Arena, la rubrica “OTHER IDENTITY – Altre forme di identità culturali e pubbliche” vuole essere una cartina al tornasole capace di misurare lo stato di una nuova e più attuale grammatica visiva, presentando il lavoro di autori e artisti che operano con i linguaggi della fotografia, del video e della performance, per indagare i temi dell’identità e dell’autorappresentazione. Questa settimana intervistiamo Isobel Blank.
Other Identity: Isobel Blank
Il nostro privato è pubblico e la rappresentazione di noi stessi si modifica e si spettacolarizza continuamente in ogni nostro agire. Qual è la tua rappresentazione di arte?
«La dimensione entro cui il mio lavoro è nato e si è evoluto, è da sempre ascrivibile alla sfera intima dell’io, che si tratti dell’immaginario innescato dallo spazio domestico, o dei vasti spazi naturali e familiari, di cui il mio ricordo si è nutrito e sostanziato negli anni. Per me quindi in un certo senso la sfera privata è sempre stata parzialmente pubblica, anche se esclusivamente nei suoi aspetti essenziali, nell’accezione in cui elementi personali sono diventati per me dei mezzi tramite i quali dialogare con l’universale.
Altra cosa è però la spettacolarizzazione cui si fa cenno, una piaga lenta ed inesorabile cui tutti assistiamo e partecipiamo sui social media, e che implica una disposizione sia di chi si esprime che di chi assiste, totalmente estranea e lontana dalla mia sensibilità o intento.
Con il mio linguaggio artistico cerco di parlare di ciò che è minimo, mi interessa indagare il segno nella sua dialettica col vuoto, e mi sento molto distante dalla grandiosità ed eccezionalità che nell’intendere comune fa capo ai termini “spettacolo” o “spettacolare”.
Ricerco lo stupore o la meraviglia verso ciò che è ovvio e quotidiano, come ciò che auspicabilmente può dare origine ad una riflessione e non come espedienti fini a sé stessi.
Ciò detto, non si può ignorare il contesto attuale in cui l’opera di ciascuno va ad inserirsi, sarebbe come negare che ogni epoca comportasse per gli artisti un rapporto con un mercato dell’arte, più o meno conflittuale che fosse. Se questo oggi include il doversi confrontare ad esempio con dinamiche di crescita o decrescita del seguito online, non è un elemento che si può tagliare fuori dalla propria quotidianità senza un pensiero critico a monte.
Come nativa digitale, se si pensa in particolare alla videoarte, all’utilizzo ad esempio di tecniche come la stop-motion o la pixillation di cui mi servivo per muovere i primi passi sul web circa 15 anni fa, il confronto quotidiano con i meccanismi che oggi riguardano l’arte digitale è inevitabile. L’estrema semplicità e rapidità con cui si può attualmente accedere a mezzi tecnologici che rendono possibili questi tipi di elaborazioni, di sicuro ha comportato un impoverimento concettuale dello scopo per cui vengono in gran parteutilizzati.
Credo che prima di tutto si debba distinguere tra l’agire estetico che intende porre un concetto alla propria base, e la pratica diffusa del condividere qualsiasi elemento della propria quotidianità che sia spinta da altre finalità.
L’importante per quanto mi riguarda è mantenere integrità e onestà intellettuale, prima di tutto nei confronti del proprio sentire».
Creiamo delle vere e proprie identità di genere che ognuno di noi sceglie in corrispondenza delle caratteristiche che vuole evidenziare, così forniamo tracce. Qual è la tua “identità” nell’arte contemporanea?
«Sono convinta che l’arte debba prescindere dal genere di chi la elabora. Quando mi pongo davanti a un’opera, non voglio dover pensare a quale genere appartenga l’autore. Talvolta è un elemento fondamentale dell’elaborazione artistica, e in quel caso, se serve a comprendere appieno il significato di un’opera, credo emerga di per sé, spontaneamente e con la forza dell’evidenza. Ovviamente non si può non considerare che nel tempo l’arte femminile abbia subito limitazioni, pregiudizi e ostacoli di ogni sorta, né che ancora in parte li subisca, assieme a chi non si riconosce in una classificazione binaria del genere umano. Ma questa è una problematica sociale e antropologica ben più ampia, che ha radici profonde e ramificazioni in tutti i campi.
L’identità di genere non è una delle tematiche al centro del mio lavoro, ma la sensibilità nei confronti delle parzialità, della fragilità, delle incompletezze che caratterizzano l’essere umano, è una parte consistente della mia ricerca.
A livello individuale, credo che per un occhio esterno le mie opere partecipino in maniera sostanziale del mio essere donna. Il femminile è un elemento che di sicuro emerge nella mia estetica, sia nella ricerca propria dell’autoritratto, che nelle mie altre derivazioni, anche se non è il centro di ciò che voglio esprimere. Personalmente, se penso a me in quanto individuo che agisce, si rappresenta e si esprime tramite un linguaggio, credo di identificarmi più con un genere neutro. Per intendersi, mi sento più vicina ad un animale o ad un bambino che non ha ancora la piena connotazione di sé, mentre esplora la propria natura per capire qualcosa di ciò che lo circonda.
Ho ripetuto più volte che il mio atteggiamento è quello di una membrana che filtra il reale: forse con un oggetto funziona meglio».
Quanto conta per te l’importanza dell’apparenza sociale e pubblica?
«Nel nostro tempo stiamo assistendo senza dubbio a un’esacerbazione delle derive originate dalla rappresentazione ossessiva e compulsiva dell’immagine di sé.
Se si pensa al mio lavoro consistente sull’autoritratto, ponendo spesso il mio corpo nel nucleo delle mie opere, agli occhi dell’altro rischio spesso un’identificazione con l’opera stessa.
Non di rado, chi mi conosce personalmente rileva però una sorta di trasfigurazione quando mi osserva all’interno delle mie opere, che siano video, performative o fotografiche. Sicuramente, per quanto la mia coscienza e il mio inconscio me lo permettano, posso confermare di trovarmi altrove mentre elaboro un’opera.
Sono una persona molto riservata, ci tengo molto alla mia privacy e a mantenere separate la sfera lavorativa da quella privata. Sicuramente l’apparire pubblico è per me un elemento con cui confrontarmi spesso in modo anche conflittuale, ma quando penso a me come parte dell’opera, seguo Adorno e trovo inutile distinguere la forma dal contenuto, che non è altro che contenuto sedimentato».
Il richiamo, il plagio, la riedizione, il ready made dell’iconografia di un’identità legata al passato, al presente e al contemporaneo sono messi costantemente in discussione in una ricerca affannosa di una nuova identificazione del sé, di un nuovo valore di rappresentazione. Qual è il tuo valore di rappresentazione oggi?
«L’influenza del passato e di tutto ciò che si è assorbito nel tempo è qualcosa da cui non si può volontariamente prescindere. La memoria è uno dei cardini attorno a cui ruota la mia ricerca, e se si pensa ai capelli come memoria fisica del corpo, si capirà forse qualcosa in più della mia produzione. Tuttavia è un rimando, un eco, del tutto personale e allo stesso tempo originario ed ancestrale, che ha poco a che fare con il richiamo esplicito a opere o correnti specifiche, se non le intendiamo puramente come influenze estetiche. Auspico sempre che le mie opere possano essere lontane da una connotazione temporale e riportare a qualcosa di intimamente universale».
ll nostro “agire” pubblico, anche con un’opera d’arte, travolge il nostro quotidiano, la nostra vita intima, i nostri sentimenti o, meglio, la riproduzione di tutto ciò che siamo e proviamo ad apparire nei confronti del mondo. Tu ti definisci un’artista agli occhi del mondo?
«Sull’auto-definirsi artista si sono sprecate le diatribe, i confronti più o meno aggressivi, i commenti sarcastici e le indignazioni. Io penso che si debbano distinguere gli ambiti e gli atteggiamenti nell’utilizzo di un termine che può essere così ambivalente. Da un lato è importante definirsi artista, è fondamentale avere coscienza di ciò che si fa, del fatto che sia una professione e come tale debba essere riconosciuta a ogni livello. Affermarlo senza timore di sorta nei confronti di chicchessia, è uno dei passi fondamentali per la coscienza di sé.
Sinceramente, data la natura di quello che faccio, non saprei come altro dovrei definirmi se non con una lista infinita di termini che manderebbe in confusione chiunque, me per prima. C’è chi ha la fortuna di esprimersi in un solo campo specifico, e poter dire: “Sono un pittore” oppure “Sono uno scultore, un musicista”. Per chi come me si muove senza ritegno tra le discipline più varie, è impossibile utilizzare qualsiasi altro termine che possa essere in qualche modo esaustivo.
E no, non sono un artigiano. Perché quel che produco non ha nessuna funzionalità pratica e contiene un concetto. È una visione un po’ semplicistica, di sicuro essenziale, ma è frutto della selezione naturale che si è compiuta nell’arco di tutta la mia vita. Ci sono ambiti, come quello del design ad esempio, che richiederebbero una considerazione specifica e più ampia.
Dall’altro lato, il termine “artista” ha anche un’accezione che esprime un’elevazione, un innalzamento rispetto agli altri e, in questo senso, chi lo dica di se stesso suona decisamente superbo, tronfio e altero: “Lascia che siano gli altri a definirti così”. Giusto, giustissimo in questa accezione. Per cui ci sono delle distinzioni da fare, certamente.
Ma con queste necessarie premesse, resta il fatto che non saprei come altro definire il mio lavoro e che, ahimè, non è sempre possibile fare delle premesse».
Quale “identità culturale e pubblica” avresti voluto essere oltre a quella che ti appartiene?
«Sulla scorta di quello che ho appena detto, a volte avrei di gran lunga preferito fare ed essere qualcosa di più semplice e immediata comprensione. Ma è qualcosa su cui non si ha pieno controllo, e di questo credo si debba essere profondamente grati.
Ringrazio la poesia, il mutamento che mi travolge quotidianamente, le vie delle mie interiorità svuotate e passate che corrono parallele a quelle che vivo in un determinato momento. Ringrazio le arterie anestetizzate che si posano di fianco a quelle che ardono del tempo presente, perché questo è il destino di chi muta frequentemente e non si può arrendere ad un’unica forma».
Biografia
Nata a Pietrasanta in Toscana, Isobel Blank si laurea con lode in filosofia estetica a Padova, vive e lavora a Cortona.
Tra le esposizioni recenti, quella alla Triennale d’Arte Contemporanea Tessile Fiberart International di Pittsburgh (USA), al MMOMA – Museum of Modern Art di Mosca, al National Center for Contemporary Art di San Pietroburgo, al Contemporary Art Center di Tbilisi, a Palazzo Widmann di Venezia, alla Mumbai Art Room in India. Tra i diversi riconoscimenti, il Primo Premio al Romaeuropa Webfactory nel 2009, sezione videoarte. Le sue opere fotografiche sono state incluse ne Il corpo solitario, la prima monografia sull’autoritratto nella fotografia contemporanea, a opera di Giorgio Bonomi (Rubbettino Editore, 2012) oltre ad essere state acquisite dall’Archivio Nazionale dell’Autoritratto Fotografico del Museo Pubblico d’Arte Moderna, dell’Informazione e della Fotografia (Musinf) di Senigallia (AN).
La sua formazione include discipline quali il teatro, la danza, il disegno, la scultura, la musica, la fotografia, che oltre a svilupparsi autonomamente, confluiscono in una fusione di arte performativa e video. La sua ricerca visionaria e surreale, pone il proprio corpo al centro dell’opera. La fisicità è il filtro che evidenzia le questioni intrinseche all’essere umano e alla sua poetica. Oltre al fulcro dell’autoritratto, particolare rilievo assumono i temi della memoria collettiva e individuale in dialogo costante con l’identità. Il fine del suo lavoro è la creazione di un luogo in cui l’intimità possa tendere all’universale.
Nel 2019 partecipa su invito del curatore Francesco Arena, alla seconda edizione di Other Identity – Altre forme di identità culturali e pubbliche (9-23 Marzo, Genova, Galleria ABC ARTE, Guidi&Schoen-Arte Contemporanea, Sala Dogana di Palazzo Ducale, PRIMO PIANO di Palazzo Grillo).