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Other Identity #82 Altre forme di identità culturali e pubbliche: intervista a Rafa Jacinto
Fotografia
Tratta dall’omonima rassegna ideata dall’artista e curatore indipendente Francesco Arena, la rubrica “OTHER IDENTITY – Altre forme di identità culturali e pubbliche” vuole essere una cartina al tornasole capace di misurare lo stato di una nuova e più attuale grammatica visiva, presentando il lavoro di autori e artisti che operano con i linguaggi della fotografia, del video e della performance, per indagare i temi dell’identità e dell’autorappresentazione. Questa settimana intervistiamo Rafa Jacinto.
Other Identity: Rafa Jacinto
Il nostro privato è pubblico e la rappresentazione di noi stessi si modifica e si spettacolarizza continuamente in ogni nostro agire. Qual è la tua rappresentazione di arte?
«Non so se ho una risposta esatta a questa domanda. L’arte è qualcosa che mi fa pensare, mi fa sfidare le certezze che ho, o che penso di avere. Sono un fotografo e la domanda se fotografia è arte c’è sempre. Questa discussione non ha molta importanza per me. Anche se la fotografia dipende da un referente materiale per esistere, la immagine fotografica sarà sempre una rappresentazione di quello referente.
Quando faccio una fotografia, questa è il risultato di tante scelte fatte prima, durante e dopo. Mi pare sia proprio lì che si trova la mia rappresentazione dell’arte, nelle scelte».
Creiamo delle vere e proprie identità di genere che ognuno di noi sceglie in corrispondenza delle caratteristiche che vuole evidenziare, così forniamo tracce. Qual è la tua “identità” nell’arte contemporanea?
«La mia identità nell’arte contemporanea è ciò che decido di mostrare. In alcuni dei miei progetti, il soggetto è la mia famiglia, ovvero l’atto di fotografare, di essere un fotografo. Io faccio il mediatore e mostro cosa è conveniente per quel progetto.
Cerco sempre una fotografia molto semplice, molto diretta. Sono più interessato al processo e al concetto che all’immagine finale. È molto difficile rendere una semplice fotografia interessante per gli altri e questa sfida mi sembra la parte più interessante del mio processo.
La mia ricerca ultimamente è su il camminare come pratica fotografica. Cammino per Milano e percorro la città raccogliendo impressioni, idee, documentando il viaggio. Il risultato sono sempre tante fotografie diverse che sono risposte agli stimoli che lo spazio (la città) mi fornisce.
La mia identità allora potrebbe essere quella di un fotografo errante. Cacciatore-raccoglitore d’immagini».
Quanto conta per te l’importanza dell’apparenza sociale e pubblica?
«È il nostro personaggio, vero? Essere un artista è costruire un altro sé pubblico. Per lo più virtuale nel mondo di oggi. Non sto dicendo che dobbiamo fingere di essere chi non siamo, anche perché uno che sceglie fare l’artista è perché lo è già in un certo modo. Non c’è modo di scappare o di negarlo quando viene dall’interno.
Ma per sopravvivere, per distinguerti, devi avere una strategia e adattarsi in base alle esperienze che hai avuto lungo il percorso. Nel mio caso ho capito che è sempre meglio non dire tutto, né di se né del mio lavoro.
Fortunatamente il mio lavoro mi ha portato molti riscontri positivi ultimamente, anche di persone che non ho mai incontrato. Anche se penso che il contatto interpersonale umano, vero, sia indispensabile, non possiamo ignorare la potenza del personaggio».
Il richiamo, il plagio, la riedizione, il ready made dell’iconografia di un’identità legata al passato, al presente e al contemporaneo sono messi costantemente in discussione in una ricerca affannosa di una nuova identificazione del sé, di un nuovo valore di rappresentazione. Qual è il tuo valore di rappresentazione oggi?
«Ci sono dei punti in comune tra il ready-made e la fotografia. Il rapporto con il reale, il referente, l’appropriazione dell’oggetto, la riproducibilità, l’interpretazione e la reinterpretazione, e cosi via. Ma, come ho risposto prima, credo che le immagini alla fine sono risultati delle esperienze vissute, del bagaglio culturale di ognuno, e che quando vengono fuori e sono viste, guardate dagli altri, prendono ancora valori estetici diversi, secondo il bagaglio dello spettatore. Preferisco pensare la fotografia come arte relazionale che come ready made».
ll nostro “agire” pubblico, anche con un’opera d’arte, travolge il nostro quotidiano, la nostra vita intima, i nostri sentimenti o, meglio, la riproduzione di tutto ciò che siamo e proviamo ad apparire nei confronti del mondo. Tu ti definisci un’artista agli occhi del mondo?
«Prima devo definirmi come un artista, cosa non facile per un fotografo. Ma si, sono un artista anche quando cammino a piedi e capisco che anche quello può essere arte. Non rendersi ai giudizi degli “occhi del mondo” ed essere me stesso è già un atteggiamento artistico».
Quale “identità culturale e pubblica” avresti voluto essere oltre a quella che ti appartiene?
«Sai, sono molto contento con me stesso. Ho già avuto tanto riconoscimento e capito che solo quello non basta. Ho provato il fallimento diverse volte. Piccoli fallimenti, preziosi per la vita. Faccio oggi quello che mi pare giusto per me, per la mia famiglia e la società. Sono sempre stato uno skateboarder. È stata la prima cosa che sono riuscito a fare bene. Avevo 10 anni quando ho iniziato e non ho mai molato. Ci sono ormai più di trent’anni sullo skateboard. La fotografia è stata la seconda cosa che sono riuscito a far bene e per questo tengo tutti i due molto bene. Sono due modi di esprimersi e di reinterpretare il mondo».
Biografia
Rafa Jacinto è un fotografo brasiliano trasferitosi a Milano circa tre anni fa. Ha iniziato a fotografare nella università e subito dopo ha iniziato a fare il fotoreporter, lavorando per quotidiani e riviste. Nell’inizio del 2004 ha fondato il collettivo Cia de Foto e ha iniziato a fare l’artista. Col collettivo ha partecipato a diversi festival e mostre di fotografia e arte in diversi paesi.
Fin dagli esordi non ha mai fatto nulla di diverso della fotografia e si è sempre occupato di tutto ciò che gira intorno a questo mestiere realizzando anche film, raccontando storie; ha diversi account social e sta sempre attento ai “cambiamenti”. Per questo ha pensato e sviluppato modi per adeguarmi al mercato. Ha vissuto la “rivoluzioni” della fotografia digitale, il fallimento del mercato editoriale e più recentemente una pandemia che ha cambiato i nostri modi di comunicare pur mantenendo intatto lo spirito di ricerca che lo ha sempre contraddistinto.
Oggi è interessato in una fotografia più “semplice” in una vita semplice.