Tratta dall’omonima rassegna ideata dall’artista e curatore indipendente Francesco Arena, la rubrica “OTHER IDENTITY – Altre forme di identità culturali e pubbliche” vuole essere una cartina al tornasole capace di misurare lo stato di una nuova e più attuale grammatica visiva, presentando il lavoro di autori e artisti che operano con i linguaggi della fotografia, del video e della performance, per indagare i temi dell’identità e dell’autorappresentazione. Questa settimana intervistiamo Nicola Favaron.
Il nostro privato è pubblico e la rappresentazione di noi stessi si modifica e si spettacolarizza continuamente in ogni nostro agire. Qual è la tua rappresentazione di arte?
«L’unica forma d’arte che riconosco come evolutiva, democratica, gratuita e universale è la vita quotidiana, vissuta con la consapevolezza del tempo sociale come necessaria illusione. La rappresentazione esterna è mera proiezione del nostro agire interno, e l’unica costanza di ciò che chiamiamo vivere è il moto, generatore di cambiamento. Una serie coordinata di pensieri, parole e azioni ripetuta nel tempo crea la realtà.
In questo senso trovo decisivo il fatto che possiamo gestire il nostro pensiero creativo, lavorando sul sentito, e direzionarlo su un percorso di evoluzione.
Questo approccio rende spettacolare tutto a prescindere.
Che poi si decida di esporlo pubblicamente o meno è altra cosa, legata sia alla eventuale commercializzazione della nostra creatività che alla gratificazione dell’ego individuale attraverso il riconoscimento esterno.
Il mezzo fotografico, o comunque una porzione di reale filtrata attraverso una lente e riproposta su una piattaforma qualunque, ci fornisce un ulteriore piano di lettura rispetto ai tradizionali del guardare con gli occhi chiusi (immaginazione) e con gli occhi aperti (interpretazione).
Arte in questo momento è per me condividere il metodo più che il risultato. Credo sia riflesso anche nel mio lavoro, che da anni mischia la pratica commerciale con la consulenza creativa e l’insegnamento e il management Universitario».
Creiamo delle vere e proprie identità di genere che ognuno di noi sceglie in corrispondenza delle caratteristiche che vuole evidenziare, così forniamo tracce. Qual è la tua “identità” nell’arte contemporanea?
«Come fotografo, la mia identità è fluida e strettamente legata alle situazioni con cui mi confronto. La fotografia è prima di tutto un mezzo per nutrire la mia curiosità e grande fame di umanità, ricevendo in cambio libero accesso a delle esperienze inusuali sia dal punto di vista sociologico che di semplice lifestyle, senza dover per forza prendere una posizione morale rispetto a ciò che ho davanti alla lente.
Mi incuriosiscono le persone e sono interessato al punto in cui l’individuo incontra il gruppo e ne diventa rappresentazione sociale nell’ immaginario collettivo.
Dando per scontato che non ci sia niente di bello o brutto a prescindere, tutto si riduce a una questione di interpretazione.
Se penso alla mia esperienza personale, con l’inizio della pandemia mi sono reso conto che facevo fatica a trovare un senso nel confronto culturale di massa gestito a megafono dai social media e mi sono preso una pausa.
Ciò che a detta di agenti e clienti poteva sembrare un suicidio professionale mi ha portato a sentirmi bene e coinvolto in prima persona nella mia vita quotidiana come non mai. Mi piace pensare di poter dare il ritmo senza inseguire quello degli altri.
Il contenuto ha peso specifico solo all’interno di un contesto e il valore di una produzione non si può ridurre a likes e commenti bipolari che durano il tempo dettato da un algoritmo. Un “contenuto” dal punto di vista del creativo e’ qualcosa di pensato, ricercato, elaborato e spesso prodotto con ingente fatica e spese, non un generico concetto imposto dal marketing per ingrassare feeds di cui non abbiamo nessun bisogno reale.
Dovendo scegliere tra essere inondato di vuoto e contribuire ad inondare il prossimo con il mio, oppure prendermi una pausa per riabbracciare il mio essere fluido in privato, ho scelto la seconda. Nello stesso tempo ho iniziato a dirigere un Corso Universitario di Fashion Styling and Creative Direction all Istituto Marangoni Londra, cosa che mi ha insegnato il valore della partecipazione attiva all’interno di una comunità definita di individui, dove la presenza fisica, il contatto umano e le emozioni che ne derivano sono I fattori principali dello scambio quotidiano, sia nell’attività accademica e didattica che negli Industry projects.
Preparare giovani talenti alle professioni creative è estremamente stimolante. La grossa differenza rispetto a quando vivevo solo di fotografia sta nel passaggio da una pratica ego referenziata al 150% ad una dove la gestione della collettività e il contributo proattivo del gruppo sono prevalenti».
Quanto conta per te l’importanza dell’apparenza sociale e pubblica?
«Come sopra. Esiste come proiezione di ciò che è dentro di noi quindi è sempre secondaria rispetto alla necessità di sentirmi centrato, presente e sereno nel qui ed ora. Detto ciò, sono una creatura sociale e ho grande fede e curiosità nel genere umano e nella bellezza del gesto.
Ognuno di noi fa un percorso pratico di vita in base a cui la società ci attribuisce dei titoli che ci legittimano ad operare dentro uno specifico ambiente e/o mercato. Questo è necessario per realizzarsi professionalmente e accetto con gratitudine le definizioni e qualifiche che mi attribuiscono dall’esterno. Quindi se ci piace quella cosa li e desideriamo farla, contare può contare molto sì. Dal punto di vista della mia crescita come individuo preferisco rispondere in modo molto onesto però, dicendoti che sono sinceramente più interessato a cosa mangerò a pranzo.
A costo di risultare superficiale, so che la qualità del cibo che ingerirò sarà decisiva per il mio stato d’animo della giornata, e quindi nella rappresentazione più o meno sana della mia apparenza sociale e pubblica di oggi».
Il richiamo, il plagio, la riedizione, il ready made dell’iconografia di un’identità legata al passato, al presente e al contemporaneo sono messi costantemente in discussione in una ricerca affannosa di una nuova identificazione del sé, di un nuovo valore di rappresentazione. Qual è il tuo valore di rappresentazione oggi?
«Alla base di tutto ci devono essere sempre delle idee, che sono intrinsecamente rivoluzionarie in quanto se messe in pratica hanno il potere di cambiare la realtà. Questo dovrebbe bastare di per se a farci sentire presenti nell’ora e dimenticare qualunque affanno.
In termini di rappresentazione, le arti visive sono una costante rielaborazione di ciò che è stato realizzato già, attraverso un processo di sviluppo culturale che le rende più o meno simili all originale. Combatto ideologicamente l’ossessione delle masse per una supposta “originalità”.
Il mio percorso personale mi ha insegnato che i progetti più brillanti sono spesso frutto di un lavoro di squadra ben definito, dove la ricerca di quanto fatto da altri su temi simili in passato e la sua proiezione immaginifica in un futuro in divenire sono altrettanto indispensabili. In quanto individui, il dono dell’originalità ci viene di default con la nascita.
L’affanno come elemento collettivo nasce dalla paura di non essere abbastanza quando ci si relaziona con l’esterno. Non mi piace avere paura, rispetto quella di chiunque ma, per il mio modo di vedere le cose, non è un sentimento sano. Invito chiunque si senta affannato a fermarsi un attimo, respirare profondamente, e recuperare l’aspetto ludico dell’esistenza, ridendo dell’affanno invece che subirlo. In genere ci si sente subito meglio e ci si rende conto che affannato è solo chi affannato fa».
ll nostro “agire” pubblico, anche con un’opera d’arte, travolge il nostro quotidiano, la nostra vita intima, i nostri sentimenti o, meglio, la riproduzione di tutto ciò che siamo e proviamo ad apparire nei confronti del mondo.Tu ti definisci un’artista agli occhi del mondo?
«In senso assoluto mi piace pensare a me stesso come un agitatore culturale piuttosto che in funzione di una definizione esterna. Sono interessato più alle domande che alle risposte, a creare dubbio che stimoli pensiero critico e responsabilità individuale più che a dare certezze.
Non sono un uomo rassicurante. Anzi..ti dirò di più: proprio non sopporto le rassicurazioni. Trovo non ci sia niente di più banale che sentirsi dire che una cosa che non è ancora accaduta andrà bene. Ma perché?? E poi,se andrà male, che importanza ha? E’ tutta vita e fa bene a prescindere se osservata da una prospettiva sana e razionale. Quindi forse il mio modo di pensare rientra nell’ accezione generica di un approccio artistico alla professione. Qui sottolineo il “forse”.
Poi se mi chiedi di rispondere per amor di dialettica: di certo, sono un grandissimo artista, capace di elevarmi sopra il noioso vuoto di questa esistenza terrena e bagnare il mio piccolo spirito fallace nelle acque luminose dell’anelito eterno di crescita divina attraverso la mia pratica creativa, distruggendomi allo stesso tempo dentro abissi dell’animo neri come il petrolio e rigurgitanti spleen, malinconia e tristezza. Tutto ciò per le cose più banali.
Ma come tutti spero! Come te, i nostri amici, George del off licence qui all’angolo, Anish Kapoor, l’infermiera Mariella a Bulciago and so on….Immagina che posto matto sarebbe il mondo se ci avessero trasmesso fin da bambini la comprensione intellettuale che la vita è arte. Non come astrazione, ma come concetto pratico abbinato a tecniche specifiche che ci insegnino il potere di modellare la realtà intorno a noi, come manifestazione suprema della bellezza del gesto. Un gesto solo nostro e privato di cui siamo unici responsabili e da cui scaturisce l’agire pubblico individuale, “in quanto” opera d’arte invece che “anche con”.
Alla tua domanda aggiungerei anche: “sentiamo”, nello spazio prima di “siamo e proviamo”. Sono arrivato alla fotografia tardi, dopo un percorso di studi umanistico, e ne ho adorato da subito l’aspetto istintivo di celebrazione contemplativa di una realtà dinamica. La capacita di iconizzare qualunque cosa e poterla condividere con un audience molto vasta, pop nel senso più generico di popolare. Usare il mezzo per parlare dalla e della strada, creando ponti invece che bruciarli salendo su un piedistallo colto di cui non sento la necessità.
Credo che il mio lavoro possieda un elemento di relazionabilità molto immediata per lo spettatore. Un dinosauro, una vulva o delle persone che fanno cose bizzarre risultano immediatamente leggibili come tali. La comprensione che possano essere significanti di un concetto più intimo ed ampio è parte di un passaggio successivo, che il cervello fa eventualmente in un secondo momento. Sono interessato a realizzare immagini semplici, basate sull’esperienza quotidiana di un uomo che vive una metropoli estremamente multiculturale in tempi complessi, ma che possiedano nello stesso tempo livelli di lettura differenti. Di nuovo a generare più domande che risposte.
In questo senso non esito a manipolarle digitalmente, montando contenuti dove non esistono, se funzionali all’espressione di un’idea.
Nonostante abbia abbassato di molto il livello culturale medio, sono un grandissimo fan della democratizzazione che la tecnologia ha introdotto nella cultura visuale degli ultimi anni. Trovo incredibile la possibilità che una persona di 3 o 93 anni, senza nessuna conoscenza tecnica, possa estrarre un device già mezzo carico da una scatola nuova pagata meno dell’affitto mensile di un garage nel bosco e con due colpi di pollice arrivare a un risultato istantaneo che con le tecniche professionali tradizionali richiederebbe il quintuplo del tempo.
Questo, se slegato dalla piccola invidia e dal desiderio di essere cio che non siamo, crea empatia e partecipazione. E’ un pensiero che trovo molto bello ed evolutivo.
Ora, non considerando volutamente chi genera un reddito attraverso il mercato dell’arte, che è un lavoro come un altro frutto di scelte e percorsi specifici, cosa c’è di più artistico della possibilità di essere padroni assoluti della propria creatività e poterla condividere?».
Quale “identità culturale e pubblica” avresti voluto essere oltre a quella che ti appartiene?
«Ad occhi aperti considero la creatura imperfetta che sono come l’unica opportunità per diventare qualunque altra cosa mi verrà voglia di essere. Sono grato al mondo: mi sveglio ogni mattina con entusiasmo e desiderio di partecipare attivamente.
Ho un quotidiano pieno e molta fede nel presente e nel futuro. Ciò che sarà dipende solo dalla mia capacità pratica di trasformare il pensiero in azione e disegnare con la materia quel mistero sexy che ci piace chiamare realtà».
Nicola Favaron lavora come fotografo, consulente creativo, docente e manager universitario. Dopo una laurea in legge e una generale formazione umanistica, si è diplomato all’Istituto Italiano di Fotografia a Milano e ha sviluppato una carriera commerciale lavorando prevalentemente in adv, ritrattistica editoriale e consulenza creativa per magazines e brands italiani e internazionali.
Dal 2009 vive e lavora a Londra. Negli ultimi anni si è concentrato sullo sviluppo della carriera accademica, come naturale estensione del suo percorso di creativo. Ha lasciato una cattedra all’Università di Westminster per la direzione del Corso di laurea in ”Fashion Styling and Creative Direction/Visual Merchandising” presso l’Istituto Marangoni a Londra, ruolo che ricopre unendo l’esperienza accumulata nell’Industria ad un crescente interesse per la condivisione culturale e di metodo dei flussi di lavoro creativi, con l’obiettivo di formare leader consapevoli dell’industria presente e futura.
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