Tratta dall’omonima rassegna ideata dall’artista e curatore indipendente Francesco Arena, la rubrica “OTHER IDENTITY – Altre forme di identità culturali e pubbliche” vuole essere una cartina al tornasole capace di misurare lo stato di una nuova e più attuale grammatica visiva, presentando il lavoro di autori e artisti che operano con i linguaggi della fotografia, del video e della performance, per indagare i temi dell’identità e dell’autorappresentazione. Questa settimana abbiamo raggiunto Giacomo Infantino.
Il nostro privato è pubblico e la rappresentazione di noi stessi si modifica e si spettacolarizza continuamente in ogni nostro agire. Qual è la tua rappresentazione di arte?
«La mia personale rappresentazione d’arte trova il suo habitat nella costante indagine di un immaginario che attinge dall’impronta del reale, attraverso il mezzo fotografico e del video; esso viene trasposto nella dimensione onirica e dell’inconscio dove, i luoghi da me indagati, non sono più dei semplici sfondi o attori passivi ma bensì elementi indispensabili per la comprensione di un intero processo di mediazione tra simboli e idealizzazioni.
Il mio approccio all’arte è incentrato prevalentemente sull’immagine e la sua peculiarità multidisciplinare. Cerco di indagare e trasporre determinati elementi, simboli e archetipi dell’immaginario che attingo dal retaggio del luogo in cui vivo. Tematiche come quella dell’alienazione umana, dell’incomunicabilità, dell’abitare contemporaneo e della psiche stessa dell’individuo, sono da me mescolati in un immaginario ibrido costituiti da elementi di luce e oscurità.
La mia esperienza personale come abitante della provincia diviene testimonianza della mia intera pratica artistica e comunicativa. I territori di confine, i margini e i paradossi del rapporto tra uomo e natura sono tutte sfaccettature della mia ricerca artistica che trova sintesi formale nell’immagine e nel colore».
Creiamo delle vere e proprie identità di genere che ognuno di noi sceglie in corrispondenza delle caratteristiche che vuole evidenziare, così forniamo tracce. Qual è la tua “identità” nell’arte contemporanea?
«La mia identità è fortemente edulcorata al territorio in cui sono nato e cresciuto. La mia attività artistica cerca di comunicare il macro mondo in cui opero per poi essere destinato ad un processo e comprensione il più ampia possibile. I sopracitati simboli e archetipi, così lo studio di una psicologia del colore, servono proprio a questo. Attraverso la commistione e l’equilibrio tra questi elementi cerco di innescare un rapporto dialogico – privo di velleità artistiche – di senso e atmosfere sensibili, ossia di atmosfere non narrative che possano tuttavia essere informative e comunicative. Credo fortemente nel cambiamento che un artista può fare con i suoi interventi, politici e soprattutto culturali, a favore di una valorizzazione stessa della propria persona e per gli altri».
Quanto conta per te l’importanza dell’apparenza sociale e pubblica?
«In quanto artista e docente rivesto un ruolo centrale per la società, anche se si tratta di due ruoli bistrattati e sottovalutati da molte istituzioni e da alcune parti della società. Siamo in una fase della nostra storia dove un nuovo illuminismo tecnologico sta tracciando la rotta per un futuro complesso e incredibile. Nonostante ciò sono sempre più convinto di un necessario dialogo tra questo cambiamento e un nuovo umanesimo in grado di riportare al centro della società l’educazione, l’arte e le persone. Per queste ragioni credo fortemente nei ruoli che investo. Essi comportano un impegno che mi spingono nel tentare di essere il più coerente possibile con me stesso e con gli obiettivi che sposo.
Dunque per me l’importanza dell’apparenza sociale e pubblica trova sola applicazione nel momento in cui essa concilia con l’idea che ho di me stesso e dei miei obiettivi. A volte mi chiedo se oggi io sia l’adulto che da bambino avrei auspicato ad essere. Il resto non mi importa. L’apparenza è si determinante, ma è per stessa natura evanescente».
Il richiamo, il plagio, la riedizione, il ready made dell’iconografia di un’identità legata al passato, al presente e al contemporaneo sono messi costantemente in discussione in una ricerca affannosa di una nuova identificazione del sé, di un nuovo valore di rappresentazione. Qual è il tuo valore di rappresentazione oggi?
«Ben venga l’ibridazione di qualsiasi linguaggio, sia che si tratti di innovazione che recupero del passato. L’incentivazione del sé è un tema complesso e che ci tocca tutti. Il mio valore di rappresentazione trova senso oggi nell’atto di onestà nei confronti dei miei intenti. Per quanto mi riguarda, tale valore, risiede nella totale accettazione del cambiamento perpetuo che l’essere umano affronta nel corso del suo cammino e nella sua consapevole accettazione del caos. La rappresentazione è dunque quell’interstizio tra le nostre scelte e l’ignoto. Cerco di non tradire ciò che mi ha spinto a percorrere questa strada nel tentativo di posizionarmi in una zona di confine tra un valore da preservare e nuovi da scoprire».
ll nostro “agire” pubblico, anche con un’opera d’arte, travolge il nostro quotidiano, la nostra vita intima, i nostri sentimenti o, meglio, la riproduzione di tutto ciò che siamo e proviamo ad apparire nei confronti del mondo. Tu ti definisci un’artista agli occhi del mondo?
«Dipende. In quanto prediligo il mezzo fotografico e delle immagini in movimento, a volte, faccio ancora a fatica a presentarmi come tale. Ancora oggi c’è un’ardua collisione tra i ruoli di artista e fotografo, come se fossero cose separate o lontane. Tuttavia, per quanto riguarda la mia situazione, non è altro che una burocrazia atta alle necessità in cui devi operare. Onestamente non ha mai cambiato la mia situazione e poco mi interessa».
Quale “identità culturale e pubblica” avresti voluto essere oltre a quella che ti appartiene?
«Oltre a quella della mia attività artistica ho sempre sognato di trasmettere la mia passione per il cinema e, di recente, ho appena incominciato a farlo».
Giacomo Infantino, classe 1993, è un artista visuale con base tra Varese e Milano. Si laurea in Nuove Tecnologie dell’Arte presso l’Accademia di Belle Arti di Brera, Milano, sostenendo una tesi sui nuovi sviluppi della committenza pubblica in Italia. Successivamente prosegue, nella stessa istituzione, il Master in Fotografia e Arti Visive che lo porterà a trasferirsi all’estero per completare gli studi presso l’Hochschule Für Grafik Und Bunchkunst di Lipsia grazie al programma Erasmus+.
Successivamente prosegue i suoi studi presso l’Università degli Studi dell’Insubria nella facoltà di Storia e storie del mondo contemporaneo. Il lavoro di Infantino è esposto a livello nazionale e internazionale in mostre collettive e personali tra cui: Photometria Festival – Parallel Voices / (Greece, 2022), Italian Institute of Culture (Prague, 2021) Futuro Arcaico (Bari, 2021), Museo di Fotografia Contemporanea – MUFOCO (Cinisello Balsamo, 2021), Premio Camera Work (Palazzo Raponi di Ravenna, 2019), Galleria Still (Milano, 2020), Garbatella Images (Roma, 2021), Museo degli Innocenti (Firenze, 2021), B-Part Gallery (Berlino, 2020), ABITARE – 999 Una collezione di domande sull’abitare contemporaneo (Triennale di Milano, 2018).
«L’immaginario di Giacomo Infantino, che prende forma nell’immagine fotografica e nelle immagini in movimento, cita, decostruisce, rigenera e genera miti e mitologie, calandoli in uno scenario naturale apparentemente senza tempo, archetipico, che però nasconde gli indici del contemporaneo. La luce ha un ruolo fondamentale nelle sue visioni. Non è la luce del sole, è la luce del buio. Questa luce ci permette di vedere il buio, guardarlo negli occhi. E pur manifestandosi in colori acidi ed elettrici, dalle sembianze artificiali, ci insinua un dubbio ontologico sulla natura della sua fonte» (Lidia Bianchi).
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