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Other Identity #91. Altre forme di identità culturali e pubbliche: Emme Divi
Fotografia
Tratta dall’omonima rassegna ideata dall’artista e curatore indipendente Francesco Arena, la rubrica “OTHER IDENTITY – Altre forme di identità culturali e pubbliche” vuole essere una cartina al tornasole capace di misurare lo stato di una nuova e più attuale grammatica visiva, presentando il lavoro di autori e artisti che operano con i linguaggi della fotografia, del video e della performance, per indagare i temi dell’identità e dell’autorappresentazione. Questa settimana intervistiamo Emme Divi.
Other Identity: Emme Divi
Il nostro privato è pubblico e la rappresentazione di noi stessi si modifica e si spettacolarizza continuamente in ogni nostro agire. Qual è la tua rappresentazione di arte?
«Io non so cosa voglia dire, in questo millennio, arte. E non so nemmeno se la mia fotografia rappresenta arte. Troviamo questa parola o artista, artistico divulgata ovunque e in qualunque ambito e il messaggio che mi arriva è che sembra quasi più importante l’uso di queste etichette rispetto al significato del contenuto espresso.
Il mio punto di partenza in fotografia, da sempre ma oggi più che mai, è la parola. È un approccio scientifico: le parole sono immagini e le immagini sono parole. La mia rappresentazione parte da qui e si declina nelle innumerevoli variabili che il linguaggio fotografico e quello poetico mettono in campo dialogando e influenzandosi reciprocamente.
Quando pubblichiamo fotografie, si dovrebbe avere la consapevolezza che pubblichiamo parole: sono la nostra percezione e attraverso questa decifriamo la realtà. La percezione è il modo in cui sperimentiamo la realtà e gestiamo le nostre emozioni.
Più che definire il concetto mi chiedo sempre: l’arte è davvero lo specchio della nostra riflessione più intima? L’arte educa per davvero alla percezione della realtà?».
Creiamo delle vere e proprie identità di genere che ognuno di noi sceglie in corrispondenza delle caratteristiche che vuole evidenziare, così forniamo tracce. Qual è la tua “identità” nell’arte contemporanea?
«La parola “tracce” mi piace molto, definirei le mie fotografie delle tracce: passi compiuti lentamente, uno dopo l’altro, ma inesorabilmente verso il significato più oscuro e recondito.
La paura, il dolore, l’inquietudine, la melanconia, la solitudine, l’infinita attesa e l’assenza vanno indagate perché l’oscurità ha uno scopo ben preciso: la comprensione del suo opposto e della vita.
La fotografia, come la parola, può essere uno strumento privilegiato per la ricerca di un significato esistenziale attraverso la tecnica della lunga esposizione, della doppia esposizione insieme con anafore, analogie e similitudini».
Quanto conta per te l’importanza dell’apparenza sociale e pubblica?
«Quando sai gestire l’apparenza perché hai compreso il significato della prima impressione verso gli altri, “il quanto conta” non ha importanza».
Il richiamo, il plagio, la riedizione, il ready made dell’iconografia di un’identità legata al passato, al presente e al contemporaneo sono messi costantemente in discussione in una ricerca affannosa di una nuova identificazione del sé, di un nuovo valore di rappresentazione. Qual è il tuo valore di rappresentazione oggi?
«L’identificazione del sé è identificazione del sé. Il valore è valore. Da sempre. L’affannosa ricerca del “nuovo” è un errore cognitivo. La riflessione è un valore perché è la casa dell’autenticità dell’espressione che si rappresenta».
ll nostro “agire” pubblico, anche con un’opera d’arte, travolge il nostro quotidiano, la nostra vita intima, i nostri sentimenti o, meglio, la riproduzione di tutto ciò che siamo e proviamo ad apparire nei confronti del mondo. Tu ti definisci un’artista agli occhi del mondo?
«Oggi, io non riesco a definirmi tale».
Quale “identità culturale e pubblica” avresti voluto essere oltre a quella che ti appartiene?
«Null’altro, l’essere appunto quella che sono e non un’altra ma sempre alla scoperta della versione migliore che vuol dire: costruire un linguaggio fotografico solido. Se penso, invece, a una “identità culturale” che mi ha influenzata, ispirata e cresciuta: 1980, Seventeen Seconds, The Cure e l’immagine in copertina del 45 giri A Forest. E a seguire molte altre identità».
Biografia
Emme Divi per Marcella Dalla Valle e sono già un gioco di lettere. Il suo percorso fotografico è iniziato dalle parole partecipando a numerosi concorsi letterari con un saggio inedito (Ritratti appesi) e numerosi primitivi testi poetici (raccolti in Flu e Ritratti in galleria). Le parole sono immagini e molto presto per necessità, da autodidatta, ha preso in mano una macchina fotografica digitale e in seguito ha seguito un corso di perfezionamento presso lo studio del maestro vicentino Attilio Pavin.
L’ambito della sua ricerca è la connessione ovvero la reciproca influenza tra linguaggio fotografico e linguaggio poetico. Predilige la luce naturale, i forti contrasti, le sfumature, l’uso di specchi deformanti. La scelta di utilizzare la doppia esposizione in camera o in post produzione, ma soprattutto l’utilizzo della tecnica della lunga esposizione è meditato ma anche istintivo e necessario nella consapevolezza del suo significato semantico. Questo tipo di ripresa ha meccanismi e significati propri di un mondo sotterraneo: è una sensazione magica che emerge e che gli piace definire poetica.
Partecipa a mostre collettive, alcune personali, e a progetti sociali. Sta progettando di pubblicare il suo primo libro di fotografie e parole: Procedure ermetiche, come quaderni di un mammifero.
persone che hanno le nostre stesse aspirazioni, desideri e modo di pensare.