Tratta dall’omonima rassegna ideata dall’artista e curatore indipendente Francesco Arena, la rubrica “OTHER IDENTITY – Altre forme di identità culturali e pubbliche” vuole essere una cartina al tornasole capace di misurare lo stato di una nuova e più attuale grammatica visiva, presentando il lavoro di autori e artisti che operano con i linguaggi della fotografia, del video e della performance, per indagare i temi dell’identità e dell’autorappresentazione. Questa settimana intervistiamo Lisa Toboz.
Il nostro privato è pubblico e la rappresentazione di noi stessi si modifica e si spettacolarizza continuamente in ogni nostro agire. Qual è la tua rappresentazione di arte?
«Vengo da una famiglia operaia che non apprezzava l’arte in quanto frivola e praticata e frequentata solo da persone di una certa statura sociale. Adoro condividere il mio lavoro sui social media, nonché crearlo e organizzarlo sotto forma di libro perché questo offre alle persone un prodotto artistico in modi più accessibili. Per me non è importante guadagnare con la mia arte, ma essere in grado di crearla e condividerla con gli altri. Significa tantissimo per me quando le persone mi scrivono e mi dicono che le mie opera hanno toccato in qualche modo le loro vite».
Creiamo delle vere e proprie identità di genere che ognuno di noi sceglie in corrispondenza delle caratteristiche che vuole evidenziare, così forniamo tracce. Qual è la tua “identità” nell’arte contemporanea?
«Abbraccio la mia identità di “artista donna”. Quando frequentavo la scuola di specializzazione in scrittura, identificarmi come scrittrice era considerata una debolezza, e molte delle donne nel programma di scrittura scrivevano su argomenti maschili stereotipati: caccia, gioco d’azzardo, alcol e sesso da un solo punto di vista maschile. Ora indosso questa identificazione con orgoglio e spesso esploro attraverso la fotografia cosa significa essere un’artista donna in un’epoca “gender fluid”».
Quanto conta per te l’importanza dell’apparenza sociale e pubblica?
«È importante per me essere accettata e riconosciuta come un’artista autentica, schietta e con i piedi per terra dalle persone che frequentano I social on line. Non voglio mai essere considerata un artista distaccata e inavvicinabile. I social media sono stati un ottimo strumento per entrare in contatto con persone dallo stesso pensiero, ma generalmente sono un introversa (ecco perché i social media sono fantastici, giusto? Il meglio di entrambi i mondi!). È anche importante per me supportare gli artisti con cui sono in contatto, acquistando opere d’arte, libri fotografici, scambiando messaggi, commentando e incoraggiando il loro lavoro: la comunità ispira e nutre la crescita artistica».
Il richiamo, il plagio, la riedizione, il ready made dell’iconografia di un’identità legata al passato, al presente e al contemporaneo sono messi costantemente in discussione in una ricerca affannosa di una nuova identificazione del sé, di un nuovo valore di rappresentazione. Qual è il tuo valore di rappresentazione oggi?
«Sono principalmente un’artista che lavora sugli autoritratti, con fotocamere e pellicole Polaroid, insieme a elementi multimediali misti. Il mio ultimo progetto, Ghost Stories, utilizza pellicole scadute ed effimeri oggetti vintage, che funzionano in tandem con le imperfezioni della pellicola scaduta. Il mio obiettivo è catturare il movimento, il tempo transitorio, e la natura dei film scaduti funge da metafora per generare questi “fantasmi”».
ll nostro “agire” pubblico, anche con un’opera d’arte, travolge il nostro quotidiano, la nostra vita intima, i nostri sentimenti o, meglio, la riproduzione di tutto ciò che siamo e proviamo ad apparire nei confronti del mondo. Tu ti definisci un’artista agli occhi del mondo?
«Sì, sicuramente, anche se mi ci è voluto molto tempo per definirmi un artista. C’è una sorta di vergogna in questa vocazione quando si proviene da un ambiente operaio, perché gli artisti sono spesso considerati strani ed evitano il lavoro “vero”, il che nel mio caso è davvero lontano dalla verità. Ho lavorato duramente per accettare quello che sono: un artista, una scrittrice ed editore (nella mia vita lavorativa quotidiana), una moglie, una zia e una prozia, una sopravvissuta al cancro, una figlia, una sorella, un’amica – tutto queste identità influenzano la mia pratica artistica».
Quale “identità culturale e pubblica” avresti voluto essere oltre a quella che ti appartiene?
«Se non fossi un’artista e un editore, sarei un archivista, soprattutto di fotografia storica».
Lisa Toboz è un’artista autodidatta con sede a Pittsburgh con un background in scrittura e letteratura. Il suo lavoro esplora l’autoritratto e la creatività come forma di guarigione utilizzando varie fotocamere e pellicole Polaroid. Si ispira alla fotografia vernacolare, alla fotografia dello spirito vittoriano e alla cinematografia soprannaturale degli anni ’70, oltre alla lettura di narrativa.
I suoi recenti libri fotografici includono Dwell (Polyseme, 2020) e The Long Way Home (Static Age UK, 2018). Le sue fotografie Polaroid possono essere trovate in varie pubblicazioni tra cui Shots Magazine, come artista protagonista in She Shoots Film: Self Portraits e Polaroid Now (Chronicle Books, 2021). Editore di professione, ha esposto a livello internazionale ed è rappresentata dalla Instantdreams Gallery della fotografa Stefanie Schneider (Palm Springs, CA).
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