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Richard Mosse, il testimone del presente occultato
Fotografia
Al MAST di Bologna c’è una mostra spettacolare su Richard Mosse, che ripercorre i suoi vent’anni di lavoro dalle prime fotografie del 2002 nelle zone disastrate dell’ex Yugoslavia, al confine tra Messico e Stati Uniti 2007 all’Iraq 2009 funestato dalla guerra vista attraverso la rappresentazione dei soldati usurpatori. Le fotografie mostrano tutte il risultato della devastazione in una situazione di stasis, di pausa in un’apparente tranquillità che segue la deflagrazione dell’azione violenta. Le fotografie invitano alla riflessione lo spettatore e costituiscono i primi passi dell’artista che si iscrive in maniera consapevole e problematica nel filone della fotografia documentaria. La domanda non è certo nuova, già Allan Sekula, Martha Rosler e Susan Sontag negli anni ’70 e ’80 problematizzavano la portata e l’affidabilità del mezzo, che doveva essere accompagnato da un commento testuale e presupponeva quindi una ricerca di carattere socio-antropologico. Negli anni 2000 con i testi Judith Butler e Hito Steyerl (artista oltre che teorica) l’evidenza dell’immagine ha preso il sopravvento.
Ma Mosse nell’intervista che abbiamo avuto il privilegio di avere a disposizione al MAST è perfettamente cosciente della perdita di credibilità della fotografia data dalla sua manipolazione con il digitale. Oggi, afferma l’artista, a differenza della fotografia analogica, la fotografia non è più ammessa come prova documentaria nei tribunali. Allora l’artista trova una sua affascinante risposta attraverso il recupero di tecnologie in disuso e obsolete, donando una vita inedita e spettacolare all’immagine. Non solo, in questo modo, l’artista è passato decisamente dal “fotogiornalismo all’arte contemporanea”, un’arte attivista che però presenta immagini particolari e coinvolgenti. Un’arte che non rappresenta un dato evento o fatto particolare, ma una riflessione complessiva che eleva il semplice documento da reportage a ragionamento sulla storia complessiva di una serie di eventi e problematiche. Lo spettatore infatti “viene coinvolto nella complessità della visione e diventa consapevole dell’operare di Mosse”. Personalmente non posso che ricordare il profondo effetto che mi hanno fatto il video multicanale Enclave dell’artista visto per la prima volta nel Padiglione Irlanda alla Biennale di Venezia del 2013: quei rosa-fucsia che trasfiguravano il paesaggio punteggiato dalle ombre scure dei soldati nella zona del Kivu Nord, nella Repubblica Democratica del Congo sono rimasti indelebili nella mia memoria. Ha ragione il curatore della mostra Urs Stahel: colpiscono lo spettatore e così l’artista raggiunge l’obiettivo di raccontare di uno dei paesi più ricchi dell’Africa, uno dei più tormentati, teatro di vicende d’orrore e di guerra, di lotta continua fatta in modo capillare con armi come machete e fucili, immagini da guerriglia e di miseria terribile. Una storia di cui poco conosce la gente, lontana dal chiacchiericcio autoreferenziale dei media generalisti.
Con il progetto Infra (2010-2011) composto da fotografie in grande formato spettacolare inizia la mostra al MAST: una grande fotografia della foresta del Congo ci immerge in un’atmosfera apparentemente idilliaca, in realtà teatro di una delle più grandi catastrofi umanitarie del nostro tempo: conta 5 milioni di morti. L’effetto è raggiunto attraverso l’uso della pellicola Kodak Aerochrome, una pellicola da ricognizione militare sensibile ai raggi infrarossi ormai fuori produzione, che registra la clorofilla presente nella vegetazione ed evidenzia i corpi mimetizzati. Una tecnica in auge durante la Seconda Guerra Mondiale viene piegata a fini estetici, si potrebbe dire con Rosalind Krauss che Mosse riporta in auge una tecnica antica, non appartenente all’arte, ma comunque obsoleta, reinventando il medium secondo scopi completamente diversi da quelli per cui era stata creata: quello di “neutralizzare le tattiche di mimetizzazione del nemico”. Seguono le misteriose immagini di Heat Maps in cui l’artista usa una termocamera che registra il calore e consente di “vedere” a 30 chilometri di distanza, una tecnica di ripresa nota in ambito militare sin dalla guerra di Corea. Nel progetto è compresa una videoinstallazione a tre canali intitolata Incoming, 2017 e una serie di fotografie dove viene ripresa l’idea della panoramica, come nel drammatico Skaramagas, 2016, lungo 7,33 metri. La fotografia è il risultato di 1500 esposizioni poi “incollate” insieme: l’effetto finale è straniante ed ha una connotazione epica e drammatica. La fotografia è divisa esattamente in due: la parte sinistra è occupata dal deposito delle merci racchiuse in container impilati e da file di camion che mostrano la circolazione continua dei prodotti, dall’altra le persone di un campo profughi rinchiuse in una zona sorvegliata. I migranti, dalla temperatura corporea più alta, sono delle minuscole sagome bianche, che si aggirano come fantasmi in questo spazio disseminato di container-case, di un bianco più tenue, fino al nero dominante dello sfondo in cui il cielo e l’acqua del porto si confondono.
Il progetto Ultra, 2018-2019, sono delle fotografie ravvicinate, macro, della meravigliosa natura della foresta amazzonica, dove – servendosi di una torcia ultravioletta e di esposizioni multiple – viene esaltata la bellezza profonda, i colori sgargianti di questo mondo misterioso ed affascinante, sempre più minacciato nella sua sopravvivenza. Infine il progetto Tristi Tropici, riprende ancora la foresta pluviale attraverso dei droni che testimoniano dall’alto la terribile deforestazione dell’ambiente, la catastrofe ambientale cui sta andando, in maniera sempre più rapida, incontro il pianeta. La ricerca fotografica è contemporanea alla ricerca dell’Istituto Nazionale di Ricerche Spaziali (INPE), che testimonia come gruppi ben organizzati e gestiti dall’alto appicchino il fuoco alla foresta, con un’accelerazione che ha visto l’aumento di questa pratica del 84% dal 2018 al 2019 e del 34% dal 2019 al 2020. L’operazione di Mosse rientra nella definizione di “realismo dei sensori”, una fotografia che si appropria dal punto di vista estetico e critico dei dispositivi di sorveglianza e di produzione particolare dei dati visivi e crea un nuovo linguaggio per la fotografia documentaria.