“Avremo divani profondi come tombe, e strani fiori sulle mensole, nati per noi sotto i cieli più belli”. Lo scriveva Charles Baudelaire, ne La Mort Des Amants.
Abbiamo avuto una primavera splendida e silenziosa, la natura si è presa nuovi spazi di libertà, i fiori spontanei sono nati più liberi e colorati, mentre l’uomo è stato obbligato alla reclusione, e reso mansueto. L’uomo, mai come prima, ha sperimentato da vicino il senso della “cattività”, parola la cui radice racconta tutto. E ha sviluppato la fobia verso i propri simili, inanellando stati di ansia, depressione, irritazione, frustrazione, senso di impotenza, insonnia, debolezza, abbattimento, ossessione…
La primavera di questo anno dalle cifre pari, esteticamente perfette – 20-20 – si è rivelata il più profondo inverno delle libertà fisiche e della libertà di pensiero, anestetizzato dalla fobia collettiva generata dal Grande Fratello della comunicazione, messa a punto dalla consegna del mondo a un regime militare, distopico e disapprovante nei confronti di pensieri non allineati, per non parlare delle necessità vitali individuali.
Progetti infranti, amori infranti, piatti infranti in guerre aperte che si sono consumate nei propri confini, nelle proprie gabbie. Solitudini nel regno.
Che cosa fare quando l’oppressione cala dall’alto, come un’eclissi prolungata? Scavare.
Derek Jarman, il regista inglese di Blue e Jubilee, descriveva la sua pratica artistica come un lavoro d’archeologia, dove l’armonia del passato – in una visione pasoliniana – si fondeva con le macerie della Londra post-industriale e post-punk. Ma Jarman era stato anche il giardiniere per eccellenza, nella sua casa di Dungeness, nel Kent. Collocato su un terreno ghiaioso, senza muri o recinzioni, il giardino del cottage di Jarman grazie alle cure del regista inglese diventa vivo: se paradossalmente da un lato gli anni ’80 dei giovani inglesi terminavano con il “No Future”, dall’altro il giardino di Prospect Cottage diventava l’angolo dove vedere il domani del mondo: “I confini del mio giardino sono l’orizzonte”, scriveva il regista nel 1991.
E così è accaduto che, in questi mesi di buio, qualcuno abbia scavato nei propri confini.
“Perimetro Divano” è il nome che il fotografo Luca Gilli ha dato a una nuova serie di immagini nate dall’isolamento, dal trovarsi di nuovo tra le mani “giocattoli, cose, frasi e appunti quasi dimenticati che reclamavano attenzione e accudimento – spiega Gilli – che hanno innescato riflessioni, ricordi tiepidi di nostalgia e ironia, per quanto immersi in un’atmosfera densa di quarantena e preoccupazioni pandemiche”.
Senza usare luce naturale – come invece è comune nella pratica dell’artista – nell’ambiente costretto di un ripostiglio famigliare, un divano diventa scenografia per mettere in atto una sceneggiatura del presente “ritrovandomi, con mirabili acrobazie, ad agire fotograficamente in una specie di autoterapia lenitiva, di esorcismo ipnotico da sofà”. Esattamente come per Jarman il giardino era divenuta una terapia e una farmacopea rispetto al suo disease, l’AIDS.
In un mondo in cui il disease ci è stato letteralmente consegnato a domicilio, l’evoluzione di una pratica di fotografia “d’ambiente” virata al “domestico” non era certamente cosa semplice. Luca Gilli, con leggerezza e trasporto, riesce a farci salpare dalla fodera, ci consegna mari e spiagge, pianeti accartocciati e stelle e ricordi in un paesaggio surreale, come lo è la vita di questi tempi, già profetizzati come interessanti e maledetti. Lo raccontano precisamente i riferimenti di due fotografie di questa serie, Il muro e Totem apotropaico. Scrive Gilli: “I protagonisti di queste fotografie sono frammenti dell’opera Totem della sofferenza volontaria, 1995, dell’artista Ugo Sterpini (1927-2000), accolto da André Breton nel movimento surrealista, che ha trascorso gli ultimi anni della sua vita a Cavriago, paese dove vivo da sempre. È superfluo evidenziare come questo suo titolo abbia una risonanza quanto mai potente con il periodo che stiamo vivendo. Proprio un bel cortocircuito!”.
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