Un uomo che osserva il panorama da una collina, indossando il zhulì, l’iconico copricapo di bambù. Un manifesto del centenario della morte di Karl Marx sotto una schiera di luccicanti biciclette. Un teatro in disuso, ma che sfoggia al centro del timpano una vigorosa stella rossa. Sono alcuni temi della mostra fotografica “稍息 Riposo! Cina 1981-84”, di Andrea Cavazzuti, filmmaker e fotografo in Cina da 40 anni, appena inaugurata al MAO – Museo d’Arte Orientale.
A cura di Davide Quadrio e Stefania Stafutti, oltre 70 immagini in bianco e nero, scattate fra il 1981 e il 1984 ed esposte in occasione dell’attivazione, il 4 ottobre, del “Corso di formazione di Cultura Materiale dell’Asia”, nato dalla collaborazione tra il MAO e StudiUm, il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Torino. Ma qual è il senso di presentare un corso di culture materiali attraverso immagini di un mondo scomparso ormai da 30 anni? Sembra un paradosso ma c’è un pensiero sottile, sostenuto da una visione, quella di Cavezzuti, lungimirante e performativa.
La Cina allora come “paradiso della fotografia”, senza privacy, bazar di oggetti e di fenotipi, dove c’era la libertà di «Spintonarsi, di entrare in casa degli altri, accendere un fuoco, fumare, sputare, fare rumore, costruire una casa, piazzare un cavalletto in mezzo alla strada». Tutto era in mostra, tutto era palcoscenico, ma soprattutto tutto aveva ancora un peso, una forma, una materia, appunto.
L’ultimo luogo della modernità in cui era ancora possibile ritrarre oggetti reali, in cui qualcosa si muoveva realmente e che non entrava solo in “camera!”. Qualcosa che in Occidente abbiamo perduto da oltre un secolo. Dalla svolta linguistica alle Avanguardie fino alla Pop Art che ha industrializzato e reso advertising ogni visione e immaginazione.
I volti di Cavezzuti sono fatti di carne, di terreno, di acqua, ci sono statue di leoni in pietra, di Confucio, di un soldato in armatura, di bar gremiti di persone immerse solo in parole suoni e sapori. Qualcosa che poi si è rotto anche lì e proprio in quegli anni. «Oggi le immagini hanno sostituito la realtà, non rappresentano più nulla ma decidono la percezione del mondo», ricorda il fotografo.
Quella ritratta da Cavezzuti è forse l’ultima Cina plasmata di orgoglio e semplicità, di spontaneità e bellezza. Poi sono arrivate le megalopoli di primo livello, i grattaceli, i boulevard, i centri commerciali, le donne e gli uomini perfetti nelle loro pose urbane. Perché la Cina non sta scomparendo, vuole scomparire. Mentre noi abbiamo l’ansia di salvare, catalogare, definire e ricordare, il vento della Cina è diverso, implacabile verso qualcosa di desiderato e costruito con fierezza e decisione.
Ma cosa succederà, poi, a fine corsa? Cosa rimarrà? Macerie? Ricordi sbiaditi? Forse è questo il dono che Cavezzuti ha fatto a noi e, un giorno, a tanti cinesi. A coloro che avranno bisogno di guardarsi indietro, di ricordare a tutti cosa era o cosa poteva ancora essere. E allora sarà inevitabilmente 怀旧, huáijiù. Nostalgia.
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