Continua la nostra serie di collaborazioni e incontri con fotografi a New York. Oggi è la volta di Dario Sartini, fotografo italiano, romano di Prati, che abbiamo incontrato al vernissage di una mostra a Chelsea e, prima, di fronte all’ICP – International Center of Photography di New York. Gli abbiamo quindi rivolto alcune domande sulla sua pratica e i suoi progetti fotografici.
Come ti sei avvicinato alla fotografia?
«Sono laureato in ingegneria elettronica con indirizzo informatico. Da giovane per qualche anno ho fatto ricerca all’università e ho avuto la possibilità di viaggiare molto in Europa e USA nell’ambito dei progetti di ricerca in collaborazione con università straniere. Quando ero al liceo si fotografava tutto in analogico e ho fatto anch’io come tanti alcune esperienze di sviluppo e stampa in camera oscura.
La passione per la fotografia è scoppiata solo al momento del passaggio dall’analogico al digitale. Da informatico mi trovavo più a mio agio con gli strumenti digitali. Per impegni professionali e interessi culturali ho girato molto per il mondo, dedicandomi soprattutto alla fotografia di viaggio, con un approccio inizialmente amatoriale e poi commerciale.
Un momento importante è stato l’incontro con quella che poi sarebbe divenuta mia moglie Barbara, visto che lei aveva fatto la fotografa di scena per un periodo ed è stata fonte di preziosi consigli. Per anni poi ho fatto foto quasi esclusivamente durante i miei numerosi viaggi all’estero e ho tentato di introdurmi nel mercato delle foto vendute dalle grandi agenzie internazionali. Oggi quelle foto sono in vendita su Getty Images e simili piattaforme. Ho anche collaborato con riviste gratuite distribuite nelle catene alberghiere di lusso e nei circoli di golf romani».
Quando hai iniziato a pubblicare delle serie fotografiche?
«Sono autore di una fanzine (Superficies) curata da Irene Alison e Fabio Moscatelli sul paesaggio urbano della periferia di Roma Sud-Est. Sono anche autore di una fanzine (Aetas) che è una breve indagine sulla terza età che prende spunto da una storia di famiglia ed è stata prodotta in collaborazione con Fabio Moscatelli per la scelta della sequenza delle foto e Irene Sollecchia per il progetto grafico. Entrambe le fanzine sono state esposte a Funzilla 2024 a Roma».
Qual è la tua traiettoria di fotografo?
«Ho sempre fotografato, ma non con continuità. Molti anni fa presi la responsabilità di una azienda in Grecia. Ogni settimana volavo da Roma ad Atene in business class con Alitalia, accumulando punti frequent flyer. A un certo punto la compagnia aerea mi scrisse per comunicarmi che ero entrato nella rosa dei clienti top e voleva farmi un regalo. Io scelsi una delle prime macchine fotografiche elettroniche tascabili e con questo dispositivo e mettendo a frutto la mia esperienza di informatico cominciai a fotografare con continuità da autodidatta, fino a qualificarmi per la vendita delle mie foto su alcune piattaforme online».
Come ha inciso la pandemia sul tuo lavoro fotografico?
«Durante il periodo della pandemia le possibilità di viaggiare si sono ridotte a zero e allora ho sentito il bisogno di far fare un salto di qualità alla mia fotografia, passando da una serie di scatti singoli al racconto fotografico.
Durante il lungo lockdown dovuto alla pandemia ho deciso per la prima volta in vita mia di seguire dei corsi di perfezionamento online sulla struttura delle immagini e la costruzione di un progetto fotografico. La pandemia e il lockdown che sono state causa di tante tragedie, per altri versi ci hanno costretti a rallentare e riflettere. Io ho cominciato con Annalisa D’Angelo, la editor di Paolo Pellegrin, e poi con fotografi di esperienza come Stefano Mirabella, Fabio Moscatelli e Massimo Siragusa. Ho trovato molte affinità con quest’ultimo, visto il mio interesse per il paesaggio urbano».
Qual è il tuo lavoro più recente?
«Proprio Massimo Siragusa ha seguito da vicino il mio progetto sulla mobilità urbana che è diventato un libro (URBS) in corso di pubblicazione con Phaos Edizioni. Nel libro ho scelto di guardare Roma attraverso la cornice dei finestrini dei mezzi pubblici, e il progetto si sviluppa lungo il filo dei binari, degli scambi, delle rotte di autobus e tram, delle strade animate dalle sagome sfuggenti dei passeggeri in transito, delle ombre che si allungano sui volti degli automobilisti fermi nel traffico. In queste foto c’è indubbiamente Roma ma, allo stesso tempo, qualsiasi altra metropoli.
Tra l’altro serendipity vuole che nel 1958 (mio anno di nascita) Robert Frank abbia prodotto un ritratto di New York “From the bus” e che mentre mi trovo qui a New York sia appena stata inaugurata una retrospettiva di Frank al MOMA che comprende proprio quelle sue immagini dall’autobus (ne scrivevamo qui, ndr). Inoltre per un’altra coincidenza raccontando il mio progetto alla curatrice Irene Alison che ha scritto i testi presenti nel libro, abbiamo scoperto di aver attraversato per lungo tempo gli stessi luoghi con gli stessi mezzi».
Qual è il tuo rapporto con NYC? Hai quartieri e zone che preferisci?
«Sono un assiduo frequentatore di New York. Ad ogni mio viaggio non manca una passeggiata sulla High Line e una visita alle gallerie d’arte di Chelsea. Questa volta poi ho avuto la splendida occasione di poter partecipare al vernissage della nuova mostra di Annie Leibovitz, Stream of Consciousness, da Hauser & Wirth».
I lettori dove possono trovare le tue foto?
«Pubblico regolarmente foto sul mio account instagram».
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