Categorie: Fotografia

Scenari Urbani: alchimia e banco ottico negli scatti di Ernesta Caviola

di - 2 Agosto 2024

Ernesta Caviola è architettrice – come sceglie di definirsi –  fotografa e regista; sceglie di lavorare esclusivamente in banco ottico, e ritiene la fotografia essenziale all’architettura, non solo come atto di rappresentazione, ma soprattutto come strumento capace di restituirla e renderla interpretabile.

La tua relazione con la fotografia è innegabilmente fisica. Lavori con il banco ottico, di cui ami ogni parte anatomica, soglia per rientrare in una dimensione primordiale di noi stessi. Ci spieghi come il banco sia l’utero di tutte le nostre visioni?

«Bello che tu abbia sentito la necessità di evocare l’utero. Io evocherei le nombril des reves (l’ombelico dei sogni). Ciò che scorgiamo danzare sul vetro smerigliato del banco ottico è un andare alla radice della visione. Questa apparecchiatura fotografica, spesso interpretata come un oggetto capace di una restituzione super formale (pensiamo soltanto alla griglia che è incisa sul vetro smerigliato) è in realtà un animale selvatico. Il nostro occhio vede esattamente quello che vede il banco: una realtà sottosopra e specchiata. Sarà poi il cervello a fare il lavoro di rovesciare l’immagine. Quindi quando guardiamo nel vetro smerigliato siamo in una dimensione pre-cerebrale. Siamo alla radice della visione, percettivamente per un attimo siamo dentro di noi in modo profondissimo ed arcaico. Questo spiega l’emozione profonda che si sprigiona nel guardare il vetro smerigliato protetti da un panno nero sul capo».

Più volte hai affermato che la fotografia rispetto all’architettura è limitante, quasi punitiva, cito: «La fotografia è un’arte alchemica e pericolosa, ti inchioda al tuo destino” e quello che tu fai è piuttosto una rappresentazione, un teatro». Raccontaci.

«L’architettura appartiene a tutti i sensi, che siano 5 o 7 o 12. L’architettura appartiene all’olfatto, non solo alla vista, appartiene all’udito, pensiamo alla nostra voce che riverbera con una certa modalità, che ne so, dentro il Pantheon. La fotografia è dunque limitata rispetto a questa esperienza totalizzante e fortemente inconscia che è quella dello spazio. La caratteristica principale di un edificio è quella di avere un indirizzo, a cui ogni architettura è ancorata. Per ogni architettrice per ogni architetto è fondamentale il gran tour, è fondamentale toccare e annusare le architetture, è necessario viaggiare. Ma se non si attiva il viaggio come si ottiene la comunicazione dell’architettura? Attraverso il disegno, la fotografia o il cinema che cercano di rappresentare questa esperienza poli-sensoriale attraverso arti che sono ahimè semplicemente visive. Quindi il mio lavoro è ossimorico, sono sconfitta in partenza, non posso farvi annusare l’architettura, non posso farvi sentire l’odore dell’intonaco. E allora come ne vengo fuori? Grazie ad un’operazione di rappresentazione ed è molto vicina alle emozioni scaturite dal teatro e con l’espediente della narrazione. Se ne potrebbe parlare per ore, un esempio è la scelta di Gabriele Basilico del titolo “Ritratti di fabbriche” ci racconta l’espediente che lui attiva per rimettere in circolo questi relitti: renderle antropomorfe per aiutarci a ri-affezionarci a loro, restituendo loro vitalità grazie allo schema percettivo del ritratto: “tu non sei un edificio morto, non più in uso, sei un corpo vivente che può essere riattivato” tant’è che ti faccio un ritratto».

All’interno del racconto fotografico di un’architettura, cosa intendi quando parli di quinto progetto?

«Torniamo al discorso della dimensione ossimorica della comunicazione dell’architettura. Parlo di Quinto progetto perché decidere come fotografare è l’atto definitivo di progetto, e sarà rispetto al quinto progetto che poi si scateneranno simpatie e antipatie. Se saremo fortunati o molto abili scoppierà l’amore per quell’edificio che porterà poi magari a salire su un treno su un aereo ad andare a fare il passo di andarlo a esperire direttamente ma questo non succede così spesso, a volte l’edificio è inaccessibile, molto spesso vivrà nell’immaginario grazie alla comunicazione fatta attraverso la fotografia».

La passione per il mondo esoterico, e la tua profonda cultura emergono spesso nei racconti sul tuo lavoro. Credi che la fotografia abbia bisogno di controluce di altre discipline per acquisire significato o semplicemente il tuo è un tema legato alla possibilità di essere argomentata?

«Guardare una fotografia di per sé basta ed avanza perché vuol dire attivare una parte specifica del nostro cervello. Pensiamo all’oscuramento verbale, che è un fenomeno di cui in Italia si parla poco ma che è stato molto approfondito nel mondo anglosassone – di come la codificazione in parole porti ad un abbandono, quasi al rilascio delle informazioni da parte del nostro sistema neuronale proprio per permetterci di avere meno dati in circolo, per alleggerire in un certo senso il nostro magazzino informativo. La fotografia ha una capacità di fornirci informazioni su più livelli, una comunicazione molto più ampia che afferisce a varie zone del cervello, a modalità di sinapsi molto più ricche. Se noi avessimo attivato la telepatia non chiacchiereremmo neanche di foto ma ci trasmetteremo altre immagini che ci vengono evocate dalle immagini che abbiamo visto, ma poiché alla telepatia non siamo ancora arrivati, allora si chiacchiera e si aprono altri scenari. Talvolta metto un piede in una dimensione esoterica perché l’architettura non parla ed in questo è esoterica in sé».

Quando fotografi architetture non lo fai mai da sola, ma sempre accompagnata da progettiste e progettisti. Che cosa succede tornando, come tu dici “sul luogo del delitto”? Ovvero quando si percepisce nuovamente un luogo con chi lo ha pensato e costruito?

«Al di là della fondamentale faccenda del quinto progetto di cui abbiamo già parlato, il ritornare sul luogo del delitto ad alcuni progettist* piace, altr* vivono in modo tormentato la comunicazione dell’edificio, alcuni esausti vogliono per un po’ non averci più a che fare. Per altr* ancora è un momento cruciale che permette di tornare sulle intenzioni di progetto di cercare di renderle visibili, materiali, comunicabili quindi è talvolta un superamento anche dell’emozione travolgente del cantiere perché se siamo fortunati raccontando il progetto con la fotografia con il video riusciamo ad attivare emozioni, orizzonti, intuizioni che l’opera costruita aveva tenuto sottotono e che invece la rappresentazione potenzia. È un momento maieutico, doppiamente rivolto al passato edificio appena finito ed al futuro, perché talvolta fotografando emerge l’edificio che verrà».

Quale credi sia il senso della restituzione fotografica di un’architettura o un paesaggio urbano? Documentazione, memoria, di nostalgia, trascendenza?

«Sempre per profonda necessità del quinto progetto, il senso della restituzione è quello di sconfiggere l’indirizzo. La vittoria sta nel veder partire l’edificio verso il futuro e trasformare il radicato progetto in un “Teatro del Mondo” di Rossiana memoria capace di attraversare il mare e risalire i fiumi, di portare il proprio lascito poetico in forma di spazio il più lontano possibile».

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