Categorie: Fotografia

Scenari Urbani: Carlo Oriente e la fotografia come “un racconto in terza persona”

di - 7 Agosto 2024

Carlo Oriente, una laurea in architettura e una specializzazione in fotografia, indaga tanto nei progetti personali quanto nei servizi su commissione, la relazione che l’essere umano crea con la natura, e lo spazio circostante, anche rispetto ai modi e mezzi di comunicazione contemporanei.

Sei un autore giovanissimo, laurea in architettura ed avvicinato alla fotografia subito dopo nel 2018, poi dal 2020 è diventato una professione; ora sei tra i fotografi più richiesti dagli studi di architettura. Ti senti interprete dei progetti che fotografi?

«Si! A volte anche in maniera inconscia. Essere architetto mi semplifica la comprensione di un progetto nei suoi aspetti tecnici e formali. Attraversarlo fisicamente invece rivela la sua natura più intima, lo svolgersi della vita e della luce. La luce è la parte del lavoro che maggiormente sfugge al mio controllo, un po’ come se il racconto del progetto scivolasse autonomamente in una delle possibili direzioni. Non è propriamente improvvisazione, la definirei più come una trance agonistica che mi avvolge».

Ritieni importante che il fotografo sia riconoscibile negli scatti, o invece come alcuni pensano, il bravo fotografo è colui che fa emergere il soggetto che ritrae?

«È una domanda complessa per me perché in questa fase della mia carriera oscillo tra questi due poli alla ricerca di un mio equilibrio. Innanzitutto non credo esista un atteggiamento che dia un risultato migliore dell’altro in termini assoluti; anzi, una cosa non esclude l’altra ed è questa la prospettiva verso cui mi muovo. La mia sfida continua è raccontare ogni progetto nel rispetto dell’idea originaria senza imporre forzature ad esso estranee e, al contempo, senza sentirmi espressivamente incatenato».

Instagram è stato uno strumento fondamentale di informazione e di scoperta di autori fotografi, e centrale nella educazione all’immagine. Come descriveresti il tipo di immagine ‘Instagram’ e quanto devi a questo strumento ora nella tua professione?

«“Instagrammabile” è un aggettivo di uso comune, e questo la dice lunga sulla sua forza. Da oltre un decennio Instagram ha aperto a nuove condizioni di esistenza non solo nel campo della fotografia. Io sono cresciuto in questa cultura scevro da pregiudizi e nel tempo ho imparato a riconoscerne punti di forza e limiti. È una fiera dispersiva di personalità e scelte. Ognuno può crearsi un immaginario visuale, possibile o auspicabile. Non credo potrà essere un punto di riferimento in eterno, ma è innegabile che in questo momento storico è il canale preferenziale per creativi e professionisti emergenti».

Si vede – e personalmente apprezzo – l’utilizzo laico che fai degli strumenti contemporanei. Mi ha colpito tra l’altro la spiegazione della post-produzione sul progetto Piscina Mirabilis che hai recentemente curato, ovvero un modo per costruire, o meglio amalgamare la tua visione del luogo, il tuo ricordo, il percepito e ciò che volevi trasmettere. Ci racconti?

«Quando sono totalmente libero da vincoli, mi piace trasmettere quello che percepisco come mia presenza in un luogo, come se fosse un racconto in terza persona. Non ho sempre un’ottima memoria, eppure questo è lo strumento principale che utilizzo per raccontarmi, poiché permette di immergermi in infiniti flussi di pensiero e associazioni che solo la memoria è in grado di innescare ed è incredibile quanto possa amplificare o alterare una nostra esperienza. In fin dei conti dice più di noi stessi che del fatto reale. È così che intendo la post produzione».

Riguardo ai tuoi scatti hai detto: “Non è detto che non stia mentendo”. Questo mi fa pensare a come tu possa reputare la fotografia non tanto come documentazione, ma qualcosa di diverso. Cosa intendi restituire nei tuoi scatti?

«Amo Rem Koolhaas! Ho letto ogni suo libro a bocca aperta. Personalmente mi sono molto ispirato al suo modo di comunicare. La provocazione deve scuotere e porre domande.

La fotografia come reportage non è il mio punto di partenza, ma non la escludo come valore aggiunto. Preferisco controllare la scena, fisicamente o in post produzione, per far passare un messaggio, un’emozione, una mia esperienza. Anzi, per contraddirmi con quanto appena detto, la fotografia come reportage è il mio punto di partenza al pari una tela su cui iniziare a dipingere».

Il rapporto con Napoli e dintorni è piuttosto intenso, e suppongo infinitamente suggestivo e stimolante. Cosa ami del paesaggio urbano di questa città che evade dall’immagine cartolina?

«Napoli adora essere una cartolina, e guai a dissentire! È a suo agio nell’amalgamare mare, pizza, panni stesi, scaramanzia, ecc. È la città degli eccessi, è bianco o nero. Io sono alla ricerca delle sfumature grigie intermedie: sono gli episodi di pausa al suo interno che sento più vicini a me, i tagli che cicatrizzano due diverse parti, gli interstizi che cuciono il tessuto circostante. E così mi ritrovo nel Parco Ventaglieri, nel chiostro di San Marcellino, in Piazzetta dell’Archivio Storico, nella Pontificia Facoltà Teologica».

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