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Scenari Urbani: Cédric Dasesson ai confini di Cagliari
Fotografia
di Lucia Bosso
A cura di Scenario, piattaforma dedicata ai linguaggi visivi e alle poetiche riferite ai paesaggi umani, “Scenari Urbani” è un progetto di indagine sulle intersezioni tra fotografia, territorio e comportamenti antropici contemporanei. Primo ospite è Cédric Dasesson.
Scenari urbani: Cédric Dasesson
Nato nel 1984, Cédric Dasesson è approdato alla fotografia e all’arte concettuale partendo dagli studi in architettura. Fotografo e waterman, appassionato di mare e architettura, il suo lavoro mira a definire elementi urbani e naturali dove ambiente, uomo e natura convivono in equilibrio e armonia, in una continua evoluzione di confini condivisi. Vive e lavora a Cagliari. Dal 2020 porta avanti una ricerca sul paesaggio del sud della Sardegna.
Il tuo lavoro di ricerca è molteplice: racconta di natura, di persone, di luoghi. Lo consideri anche un lavoro di documentazione, di denuncia?
«Tutto è iniziato da un lavoro di mappatura fotografica delle coste del sud della Sardegna, per cui ho intrapreso un’analisi molto personale che si basa essenzialmente sulle tassonomie di spazi. L’elemento chiave di questo progetto è stata l’osservazione degli ingressi a mare, un nodo infrastrutturale a metà tra il naturale e l’artificiale, veri e propri passaggi tra due mondi, la terraferma e il mare: corridoi d’acqua, spesso spazi residuali, di forte entropia, sconosciuti e con una veste ancora diversa nel periodo del lockdown.
Ritengo questo lavoro un’analisi reale di quello che ho conosciuto ed esplorato nel tempo, attraverso un racconto di relazioni tra natura, paesaggio e abitanti. Penso anche di aver denunciato qualcosa, visto che avendo presentato il progetto a diversi enti per proseguire l’indagine, non ho poi potuto accedere ad alcune aree».
La zona del porto di Cagliari sta subendo ingenti trasformazioni, e con il tuo lavoro scegli di narrarla attraverso la comunità che la abita. Perché è importante connettere il racconto del territorio alla vita delle persone che lo abitano?
«L’area del porto di Cagliari nasce sulle sponde di un grande sistema lagunare, luogo di significative dinamiche ecosistemiche. Questa risorsa è sempre stata assecondata dalla presenza dell’uomo, grande protagonista delle trasformazioni di micro e macro impatto. L’incontro tra mare e laguna è da sempre simbolico per la comunità, un luogo per lo stare, di aggregazione e di vita, come è evidente nel villaggio di pescatori, un presidio di chi ancora oggi si prende cura di questo delicato ecosistema ibrido.
E’ stato interessante interagire con chi vive il luogo, e scoprire il loro rapporto con la trasformazione, come la contrastano da una parte e la generano dall’altra».
Da dove nasce l’urgenza della tua ricerca?
«Dalla curiosità verso i cambiamenti del territorio e dalla sensazione di poter raccontarli, per creare una testimonianza di ciò che sta accadendo. Iniziando il progetto, venni del tutto casualmente a sapere della demolizione del Silos, grande landmark di Cagliari, un riferimento dei traguardi visivi verso e dalla città. Da quel momento la mia analisi è cresciuta e da quell’evento si è aperta inevitabilmente un’altra fase di trasformazioni, che continuo a testimoniare».
È evidente nei tuoi lavori, quanto l’uomo sia una parte dell’intero ecosistema ambientale in cui è inserito, come se riconoscessi una possibilità di equilibrio tra le dinamiche naturale ed antropiche. Esiste una speranza?
«Solo recentemente ho iniziato a fotografare persone, perché si è rivelato determinante inserirle come attori e autori della trasformazione, o persino come guide. Essendo estraneo a quel territorio, le persone mi hanno molto aiutato a conoscerlo, e in qualche modo fotografarli era un modo per ringraziarli. L’equilibrio che ho ricercato con le persone è lo stesso che loro hanno costruito con il territorio. La fiducia nei miei confronti la interpreto come approccio esistenziale, è la stessa fiducia che hanno instaurato con il luogo che dà loro vita e lavoro. L’equilibrio è possibile, è speranza concreta nel momento in cui si mantiene prioritaria la forza del dialogo».
Cosa hai imparato da questo lavoro?
«Indubbiamente a guardare anche attraverso gli occhi altrui, di chi abita quotidianamente questi luoghi.Ho esplorato, fino ad incontrare i primi ostacoli che hanno inevitabilmente imposto dei limiti, ma è stato possibile comunque creare una base metodologica di analisi e osservazione del territorio che vorrei estendere all’intera Isola».
Ti ritieni un fotografo documentarista?
«Non mi sono mai identificato, ma se ne analizziamo la definizione, effettivamente raccolgo documenti per poi metterli a conoscenza, quindi anche non volendo necessariamente identificarmi, forse lo sono, sì».
A tuo avviso, la fotografia ha ancora il potere di mostrare il mondo e documentarne i cambiamenti in modo proattivo?
«Credo non lo abbia mai perso. La fotografia è forza e stato d’animo in un mondo che conosciamo poco, una testimonianza continua del territorio che cambia e di noi che lo abitiamo. Abbiamo bisogno di questo, pur dovendo maneggiare attentamene il processo di distorsione dell’immagine che viviamo ora soprattutto nei social, strumento importante per la veicolazione dell’informazione visiva ma altrettanto pericoloso proprio in relazione al processo ideativo di ogni progetto fotografico».