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Scenari Urbani: il paesaggio politico nelle fotografie di Anna Positano
Fotografia
di Lucia Bosso
A cura di Scenario, piattaforma dedicata ai linguaggi visivi e alle poetiche riferite ai paesaggi umani, “Scenari Urbani” è un progetto di indagine sulle intersezioni tra fotografia, territorio e comportamenti antropici contemporanei. Oggi incontriamo Anna Positano fotografa e ricercatrice indipendente, con un background in architettura. Il suo lavoro si concentra sui paesaggi alterati dall’uomo da una prospettiva materialista; esplora l’anticapitalismo, le teorie postcoloniali e l’ecologia. È cofondatrice dello Studio Campo.
Un tratto riscontrabile nelle tue ricerche è la capacità di guardare ai paesaggi urbani attraverso la prospettiva quasi esclusivamente politica. Appare quanto, anche e soprattutto i contesti antropizzati siano un manifesto delle decisioni di potere, delle scelte dei governi. Assimilo il tuo sguardo agli occhiali speciali del film ‘Essi Vivono’, attraverso cui vedere il vero significato di ciò che ci circonda.
«Credo che aver studiato architettura abbia influenzato il mio approccio ai luoghi, perché, osservando quello che ho intorno, mi domando come funzionano e perché siano fatti in un certo modo. Allo stesso modo, mi interessano i meccanismi, il dietro alle quinte, la ‘struttura’ (economica, in senso marxista) che generano la città e l’architettura. In questa prospettiva, diventa interessante considerare l’agire politico come risposta a istanze economiche, spesso con situazioni di conflitto d’interessi e di rapporti clientelari. E la città ne è il risultato più evidente. Di recente, dopo L’invenzione di Milano di Lucia Tozzi, ho riletto Il diritto alla città di Henri Lefebvre e Contro la comunicazione di Mario Perniola, che restano ancora saggi attualissimi e che influenzano il mio lavoro di ricerca. Quindi non sono certa che le mie foto mostrino il vero significato di ciò che ci circonda; il mio è uno sguardo parziale e decisamente non esaustivo, per fortuna. Questo lascia spazio ad altre possibili interpretazioni, che contribuiscono alla costruzione di una complessità di immaginari e di pensiero. Allo stesso tempo ho sviluppato un certo fastidio per le narrazioni muscolari e celebrative di architetture e città, che nutrono l’ego degli architetti, contribuiscono al consenso e creano un immaginario a-critico ormai fuori tempo massimo.»
«Più che reporter, mi considero un essere interpretante, e quindi non oggettivo. La vedo invece come una posizione di moderato distacco dal soggetto, ragionata, che non cerca il dramma bensì uno stato ‘ordinario’. Anche perché in entrambi questi progetti arrivo a cose fatte: non c’ero durante la Prima Guerra Mondiale e nemmeno ho mai visto per intero il Promontorio di San Benigno prima che lo spianassero, ne percepisco solo l’assenza. Ho lavorato con l’artista Bouchra Khalili, che mi ha insegnato quanto il messaggio arrivi molto più potente se si comunica senza dramma, con parole quasi neutre e inquadrature che non cercano la spettacolarizzazione. Questa forza comunicativa è particolarmente evidente nelle sue opere così come nel cinema di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet.»
La tua città, Genova, con il suo stratificato e complesso destino morfologico – dove proprio la delicata conformazione territoriale dovrebbe essere il cardine di ogni scelta politica, e che spesso invece ne diventa il bersaglio – è la protagonista di una tua ricerca fotograficache emana un senso di protezione, e talvolta un senso di accusa. Quale rapporto emotivo con la città cerchi di riportare nei tuoi scatti?
«Il mio rapporto con Genova va oltre il viscerale, perché non è solo il posto in cui sono nata e vivo, ma è da sempre il luogo che mi stimola e in cui formo lo sguardo. Adoro le sue parti poco curate e mal rabberciate, le sue contraddizioni e frizioni, la densità e gli inaspettati luoghi di pausa, il suo carattere più che ambiguo. Come riassume meglio Giorgio Caproni nella sua Litania
“[…]
Genova che non mi lascia.
Mia fidanzata. Bagascia.
[…]”
La fotografo da sempre, la maggior parte delle volte in maniera non particolarmente sistematica, bensì frammentaria. Quando c’è un forte legame con un luogo, diventa difficile mettere in atto quel distacco che garantisce lucidità di ragionamento. Temo che talvolta nelle mie foto di Genova emerga un po’ di tenerezza. Purtroppo negli ultimi anni, a partire dal crollo del Ponte Morandi e l’invenzione del ‘modello Genova’, le grandi opere annunciate, le trasformazioni di tante aree dismesse e fragili, e il turismo di massa stanno togliendo significato alla mia città. Non sono per niente un’inguaribile romantica Bobo, anzi, devo ammettere che per la prima volta provo un forte senso di alienazione urbana. Non sono contro le trasformazioni tout-court, ma quando si applicano logiche thatcheriane alle scelte urbanistiche e si assecondano le visioni anni ’60 di chi finanzia le campagne elettorali, come si può essere d’accordo?»
Come l’immagine di un territorio può essere fonte di coscienza politica?
«Il parco di Yellowstone esiste anche grazie alle fotografie di AnselAdams, che consolidò l’immaginario di luoghi praticamente sconosciuti sensibilizzando l’opinione pubblica in termini di tutela della natura. Lavori come Oil di Edward Burtynsky sull’impatto territoriale del petrolio hanno generato domande sulle logiche di consumo e sulle scelte economiche (e politiche) che hanno portato alla forma di quei paesaggi. Ritengo che sia fondamentale continuare a parlare di tematiche sociali e ambientali attraverso l’immagine dei territori, perché sono il nostro habitat, il nostro vero patrimonio collettivo da tutelare e migliorare. Senza coscienza politica, nel senso di pòlis, sui territori si agirà sempre con logiche estrattive.»
Penso anche a Luxembourg. The Productive Landscape un tuo recente progetto su un territorio politico parecchio spinoso. Ce ne parli?
«Il progetto nasce da una ricerca di ENSA Versailles (École NationaleSupérieure d’Architecture de Versailles) e TU Graz (TechnischeUniversität), nella quale sono stata coinvolta per un contributo fotografico. Il lavoro accademico verte sulla transizione ecologica e le possibili strategie urbanistiche e architettoniche a livello territoriale, prendendo come caso studio il Lussemburgo, che è il secondo Paese dopo il Qatar per emissioni pro capite.
Il mio progetto fotografico, che mira a rafforzare le basi di questa ricerca – da una parte guarda all’antropizzazione del Lussemburgo, dall’altra c’è il tema del confine e dell’ambiguità, per cui se negli aspetti economici la differenza al di qua e al di là del confine è evidente, come per esempio la consistente presenza di stazioni di servizio senza accise, per altri aspetti c’è una sostanziale continuità territoriale/paesaggistica.»
Un altro tuo aspetto notevole è la messa in evidenza di quanto i contrasti e le contraddizioni sociali si rispecchino sul territorio (Melilla, UE o Addis Ababa. The Awakening City) : è possibile raccontare la storia dell’uomo contemporaneo escludendolo dalla narrazione?
«Se con uomo intendiamo Homo Oeconomicus e applichiamo una prospettiva di materialismo storico, è abbastanza semplice trovare nel paesaggio antropizzato, quale sovrastruttura, i segni delle diseguaglianze sociali e delle contraddizioni. Nella mia pratica cerco di quindi di ragionare su una dialettica urbana; del resto le città sono tra le maggiori manifestazioni dello stato di salute di una democrazia. Non essendo particolarmente incline ai rapporti sociali, nelle mie fotografie l’essere umano è semplicemente parte di quel paesaggio, e non il centro. E forse raccontare l’essere umano senza immaginarlo in relazione con tutto ciò che umano e organico non è, rischia di rendere questa storia estremamente autoreferenziale.»