-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
Scenari Urbani: luoghi come rifugi, nelle fotografie di Marco Fava
Fotografia
di Lucia Bosso
A cura di Scenario, piattaforma dedicata ai linguaggi visivi e alle poetiche riferite ai paesaggi umani, “Scenari Urbani” è un progetto di indagine sulle intersezioni tra fotografia, territorio e comportamenti antropici contemporanei. Dopo aver intervistato Karina Castro e Cédric Dasesson, in questa puntata Marco Fava ci parla di un costante rinnovamento dello sguardo che esplora nuovi significati dei luoghi che attraversiamo.
Marco Fava (Piacenza, 1978) nutre una ricerca fotografica orientata principalmente al paesaggio suburbano e alle commistioni tra noi e l’ambiente, attraversando anche quegli elementi di interazione che si evidenziano tra le presenze architettoniche, quelle degli uomini e la loro assenza.
Nella tua ricerca, e come emerge in maniera evidente già dai titoli delle tue serie fotografiche, sembri soffermarti spesso sullo spazio di intersezione tra il paesaggio naturale e la presenza umana. Cosa hai appreso dall’osservazione di questi luoghi ibridi?
Sì, questi luoghi di intersezione mi interessano da sempre, forse perché non comprensibili fin da subito e fino in fondo. In questi paesaggi ritrovo sempre elementi che li mettono in relazione con altri luoghi, come se svelassero un’unione tra un punto ed un altro; allo stesso tempo, rimane sempre qualcosa di sfuggente. Ed è questo che mi affascina e mi permette di ragionare su piani di interpretazione diversi.
Ad essere ricorrente nel tuo lavoro è anche la costante attenzione al dato della caducità. In ‘traces of a fast geography’ affermi: <<Il frequente ritorno negli stessi luoghi, il camminare lentamente come pratica di osservazione, è fondamentale per me per capire l’evoluzione e cogliere i movimenti>>. Perché ti interessa cogliere il cambiamento?
Al di là di alcuni progetti specifici come questo, dove l’analisi del cambiamento dei luoghi rapportato al tempo era uno dei punti cardine, più in generale l’osservazione degli stessi luoghi in un determinato arco temporale può aprire scenari diversi, inaspettati. Non è solo un gioco di addizione e sottrazione di elementi da una scena già vista, piuttosto diventa una ricerca di nuove riflessioni per un’evoluzione del progetto stesso. Credo, inoltre, che questo metodo di osservazione del tutto spontaneo mi abbia portato nel tempo ad estendere l’interesse anche verso altre tematiche non strettamente legate all’analisi del territorio o dell’architettura. Una pratica che ritengo di aiuto per affrontare in modo meno circoscritto o retorico un progetto fotografico.
<<La sensazione che rimanda a qualcosa di sfuggente e non definito>> come tu stesso riconosci, è pressoché costante. È interessante questa, direi, fuga dall’urgenza di documentazione, e la necessità invece di una sorta rifugio, una protezione immaginifica dei luoghi. Ti ritrovi?
Sì, decisamente. La documentazione, che inevitabilmente c’è, è per me è una conseguenza, più che un obiettivo. Il luogo è uno scenario che ti offre spunti per creare relazioni con altri luoghi, situazioni, immaginari. Col tempo, credo di aver iniziato ad osservare il contesto in modo meno lineare, con una ricerca costante di rimandi, usando l’insieme dei luoghi fotografati come elementi di una grande scenografia. Mi piace pensare che il fruitore delle immagini possa a sua volta ricostruire qualcosa di molto personale.
Dici di voler dare forma visiva al legame tra uomo e questi luoghi, allo stesso tempo amati, sfruttati, contaminati, sconosciuti, sorprendenti, misteriosi. Tra le tue intenzioni, sembra esistere quella di creare una restituzione emotiva del contesto. È così?
Sì, semplificando, cerco spesso di isolare un singolo elemento che funga da meccanismo per rappresentare una visione, un rimando; ancora una volta, la documentazione lascia spazio al personale, al privato.
La ritieni in qualche modo una traccia da recuperare o da ricreare, quella del sentimento attivo tra territorio e uomo?
Non credo sia tanto da recuperare un sentimento, credo piuttosto che il rapporto tra uomo e territorio ci sia a prescindere, sia molto forte e abbia innumerevoli sfumature. Forse, si potrebbe ragionare più sull’attenzione che poniamo verso i luoghi con cui interagiamo, provare a scorgere qualcosa di nuovo, stupirsi.