A cura di Scenario, piattaforma dedicata ai linguaggi visivi e alle poetiche riferite ai paesaggi umani, “Scenari Urbani” è un progetto di indagine sulle intersezioni tra fotografia, territorio e comportamenti antropici contemporanei. Oggi incontriamo Giovanni Emilio Galanello, fotografo indipendente con sede a Milano, formatosi come architetto. Si dedica alla fotografia interessandosi alla vita dei manufatti ordinari e al rapporto tra paesaggio umano e memoria.
Partiamo dal tuo ultimo lavoro, Sea Changes ora in mostra al Padiglione Italia della Biennale di Architettura di Venezia, a cui hai lavorato in collaborazione con Lemonot and Roberto Flore. Di cosa si tratta e come hai strutturato l’indagine?
«Vorrei cominciare con un piccolo ridimensionamento: questo un mio un piccolo contributo a un lavoro molto più ampio.Fosbury Architecture, i curatori del padiglione Italia dell’attuale edizione della Biennale avevano pensato di integrare il già estensivo lavori sul territorio italiano con saggi fotografici sulle nove aree che compongono la geografia del Padiglione, nove fotografi, uno per ogni area. mi hanno assegnato, anche per più o meno evidenti ragioni di provenienza l’area dello stagno di Cabras, in provincia di Oristano, con un intervento di studio Lemonot (Lorenzo Perri e Sabrina Morreale), insieme a Roberto Flore.
Il tema del mio saggio era libero, come unico vincolo il luogo, che richiamava un certo immaginario legato alla pesca, da cui derivano una serie di riflessioni sul legame tra lavoro e territorio, economia e geografia.
In questa realtà, ho cercato di ricostruire un racconto di rituali, espliciti ma anche fittizi, che portano la pesca del muggine oltre i confini dello stagno fino a influenzare la vita quotidiana del paese e dei suoi dintorni.
Per trovare le immagini giuste a costruire questo immaginario, ho tracciato un percorso ideale, un anello intorno allo stagno. E come spesso mi capita, esplorando senza una meta precisa, ho riscontrato le cose più interessanti fuori dal tracciato. Tra le immagini più rappresentative c’è ‘la casa pesce’, un’abitazione in un piccolo villaggio sulle stagno il cui intonaco è stato trattato in un modo da assomigliare simile a scaglie di un pesce, appunto. Non penso ci sia un legame diretto e reale tra le due cose, ma la fotografia per me rimane uno strumento di interpretazione della realtà; guardo alla realtà in maniera personale e intima, a volte magari travisandola, ma senza per questo renderla meno reale. È solo un’altra realtà possibile».
Attraversando i tuoi vari progetti di ricerca, si riscontrano alcuni tratti comuni, che approfondisci in modo sempre diverso. Uno è il concetto di bordo, di spazio liminare, l’attraversamento del confine delle cose – come in Walk Among the Lairs of Wild Beasts There o in Cosa tutto c’è – che però sembrano diventare pretesto per indagare altro. Cosa osservi, ecosa recepisci dai questi luoghi?
«Cosa tutto c’è è un progetto lampo, sviluppato insieme a Francesca Gotti, ricercatrice e attivista con la quale collaboro da anni per la maggior parte dei miei progetti, nell’ambito della mostra Landscapes for Holidays curata dal collettivo ASSUME THERE’S A LANDSCAPE, il cui tema era il paesaggio delle vacanze; date le mie origini sarde abbiamo pensato di indagare un paesaggio molto transitorio come quello dei traghetti verso la Sardegna, terra di conquista per migliaia di turisti durante l’estate. Il traghetto diventa un grande contenitore di immaginari vacanzieri – materassini ombrelloni sedie amache gommoni barche palloni – che in qualche modo annulla il concetto di confine marittimo.
Riguardo WALWBT, si tratta di un progetto di ricerca a lungo termine, iniziato l’anno scorso e ancora in corso: un’indagine sul confine tra Polonia e Bielorussia, teatro, nel 2021-2022, di scenari migratori catastrofici. Nel 2022 sono stato là con una carovana di aiuti che faceva capo a Maite e Mesa Popular – due realtà bergamasche molto attive sul tema della migrazione e dell’integrazione – e da quel viaggio mi son portato dietro la necessità di ragionare sulla distanza di concetto tra confine naturale e confine politico.
Ho scelto di andare alla ricerca di bisonti, una delle principali attrazioni turistiche del territorio, per estendere in realtà la ricerca al paesaggio di confine, un luogo in cui i limiti sfumano, le lingue si mischiano, usi e tradizioni si contaminano. Mi trovo spesso a cercare degli stratagemmi narrativi per indagare i territori e le tematiche che li riguardano.
Penso che i confini siano una parte fondante della mia persona, forse per via del mio essere isolano; il mare è un confine molto netto, oltre il quale non si vede chi ti sta vicino. Le cose e le persone che ci sono su un’isola sembrano essere piombate dal cielo, ma in realtà arrivano superando un confine. Ma un conto è superare il mare, naturalmente difficile da attraversare, come dimostrano anche le tragedie sempre più frequenti nel Mediterraneo, un conto è superare una linea tracciata sui tavoli di una stanza da qualcuno: perché diventa difficile come attraversare il mare?».
Un altro approccio che riscontro nel tuo lavoro, è la capacità di partire da un elemento apparentemente banale, per farne una leva di riflessione profonda sulle comunità, sul paesaggio urbano e culturale. Sto pensando a Anonima Plastica in Libano: me lo racconti ?
«Come accennavo ora, mi capita spesso di cercare, consciamente o meno, un dispositivo narrativo capace di allargare il campo di ricerca, una traccia che mi porti fuori traccia, e mi aiuti a ricomporre un immaginario più ampio, denso e complesso.
Nel caso di ANONIMA PLASTICA, la sedia come stratagemma mi si è presentata casualmente. Come mi dico sempre, la foto manifesto del progetto è l’unica che non ho scattato: una sedia posizionata su una piattaforma di cemento al centro dell’autostrada da Beirut a Baalbek, in Libano. Stavo guidando e non mi sono sentito di lasciar andare il volante per scattare quella foto. Ma da lì è iniziata una sorta di caccia al tesoro, che ha previsto una buona dose di ossessione: la sedia di plastica – bianca rossa marrone verde – era ovunque. Nulla di strano: anche nel sud Italia come tutta l’area mediterranea la sedia di plastica è un elemento integrante del paesaggio. Ma trovandomi in Libano, ero concentrato sull’epopea della sedia in quello specifico contesto, e insieme a Francesca Gotti e ai nostri amici Rana Rmeily (graphic and media designer) e Wassim Melki (architetto) ci siamo immaginati di poter ricostruire un paesaggio storicamente, socialmente e geograficamente molto frammentato come quello libanese attraverso questo oggetto: si è rivelata una sorta di macchina spazio-temporale, con la quale ripercorrere gli ultimi 40 tumultuosi anni del Paese».
La trama dei tuoi lavori ha una densità di ricerca, estremizzando direi di denuncia o di documentazione – piuttosto intensa, quasi sempre connessa al contesti territoriali ( penso al progetto su Tokyo, o anche a questo in Biennale ). Mi chiedo se sia un risultato a cui arrivi grazie e attraverso la fotografia, o un obiettivo che ti poni come premessa, e dove la restituzione fotografica ne diventa il linguaggio, l’espressione.
«Il mio approccio ai progetti è sempre diverso, come se ogni volta mi dimenticassi che faccio fotografia, vado in un posto, cerco di viverlo, poi mi ricordo di poterlo fotografare, e inizio una ricerca che non sempre so dove mi porterà. Nel caso di DISPLACED TOKYO, dove ho lavorato e vissuto e solo dopo sono tornato a fotografarla. In quel caso ero partito con altre aspettative, e son tornato con un progetto che ad oggi definirei un lavoro sulla solitudine, probabilmente la mia.
Trovo sempre più nella fotografia uno strumento curativo, un’autoterapia; per questo cerco di programmare il meno possibile un progetto, anche perché quando programmo poi tendo a non riuscire a rispettarlo e mi lascio guidare dal corso degli eventi, dalle mie sensazioni riguardo i luoghi in cui mi trovo.È tutto piuttosto spontaneo.
Riguardo i provini, e trovo un senso narrativo che va aldilà delle mie percezioni sul momento. In sostanza, non c’è un ordine nel mio approccio alle cose. So solo che la macchina fotografica arriva quasi sempre dopo».
Accompagni con testi ampi e narrativi ogni tuo progetto di ricerca, da cui si potrebbe pensare che non reputi la fotografia un linguaggio autoportante, che si esaurisce in sé, come spesso viene considerata – ma piuttosto una parte di un lavoro che ha necessariamente bisogno di essere raccontato. Le immagini vanno spiegate?
«NO. In teoria. Nella pratica, ho la fortuna di collaborare spesso con Francesca Gatti che con i suoi testi riesce ad aggiungere un ulteriore significato ai progetti. Non alle singole immagini, alle quali non do mai un titolo o una didascalia, ma alla serie, al progetto in senso esteso.
Per fare un esempio anche un po’ estremo, nel progetto GLI STATI DELLE ANIME, il testo – una sceneggiatura scritta da Francesca e Marianna Stella, sceneggiatrice ed educatrice norcina, a partire dalle storie raccolte presso gli anziani della comunità di Norcia – è cruciale, e le fotografie sono quasi un’appendice; il rapporto testo-immagini si ribalta, ma guardandole singolarmente, si ricostruisce nel lettore un determinato immaginario, che credo non abbia bisogno di spiegazioni.
Vorrei che le mie fotografie potessero sopravvivere da sole, senza un testo, ma credo anche fortemente nella collaborazione tra diverse arti; collaborazione appunto, non sudditanza dell’una verso l’altra. La realtà è troppo complessa per pensare che basti una fotografia a raccontarla. Mi piace pensare che la fotografia non sia un mestiere solitario».
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