È sicuramente stata una delle mostre più interessanti che abbiamo potuto vedere durante la scorsa Torino Art Week. Ed è anche, sicuramente, una delle mostre meglio allestite e più ben confezionate attualmente visibili in città, sia per i nomi degli artisti presentati, sia per un aspetto poetico imprescindibile quando si tratta di immagini che raccontano di rapporti umani.
Parliamo di “Some People”, parte del progetto “Me Two” che al Museo Ettore Fico – a cura del direttore Andrea Busto – ha messo in scena un percorso nella collezione di Ernesto Esposito, tra fotografia e opere installative di una serie di artisti brasiliani di prim’ordine (al primo piano del museo).
Da David Bailey a Betty Bee, da Gilbert & George a Nan Goldin, passando per le bellissime fotografie-studio per le piscine di David Hockney, Bruce La Bruce e Erwin Olaf, Thomas Ruff e John Saudek, Wilhelm von Gloeden e Joel Peter Witkin, sono solo alcuni dei nomi che si incontrano nelle sale del Museo Fico.
E sono incontri fatti “di pelle” e sguardi; sono incontri che Esposito, stilista di fama internazionale che ha collaborato, tra gli altri, anche con Marc Jacobs, Sergio Rossi, Sonia Rykiel, Louis Vuitton, Fendi, ha fatto in prima persona con i fotografi, che sono diventati amici e complici di una collezione armonica e densa; altri sono incontri e innamoramenti avvenuti tra le pareti di gallerie, che Esposito ha deciso di fare suoi.
“Some People” è una mostra che parla di corpi ed erotismo, che parla dell’universo di Napoli e uomini bellissimi e di una collezione, che non è un dettaglio, precisissima e di grande uniformità: ogni pezzo, da Nico Vascellari a Richard Avedon è perfettamente armonico nel complesso, perfettamente lineare in una traiettoria di compiutezza.
Una mostra che, oltre a un valore poetico, rappresenta e analizza anche la storia della fotografia dell’ultimo secolo, attraverso lo sguardo tagliente che mostra la rottura degli schemi sociali, sessuali e delle identità di genere.
Oltre ai pezzi forti di Cindy Sherman e ai bellissimi pugili efebici e violenti, dolci e dallo sguardo perverso di Erwin Olaf, merita uno sguardo più che attento la parete dedicata alla produzione che Jack Pierson, invitato a Napoli all’inizio degli anni ’90 dallo stesso Esposito, realizza “in situ”.
Una serie di fotografie dove compaiono giovani ragazzi, alcuni timidi altri più consapevoli e seduttivi, di una bellezza ammaliante ed estiva, in scatti quasi rubati, enigmatici e sospesi nel tempo che richiamano alla memoria i volti e i corpi ritratti nella Sicilia “arcaica” di Von Gloeden, che ci immaginiamo zingareschi e conturbanti come Arturo nella sua L’isola, descritta da Elsa Morante; gli sguardi emaciati di Wolfgang Tillmans e ancora Thomas Ruff con la sua celeberrima serie dedicata alla rivisitazione di immagini pornografiche impedite alla visione a causa della sfocatura, ma che non lasciano spazio all’immaginazione, contrariamente a ciò che avviene in mostra.
Già, perché guardare a “Some People” è un po’ come entrare in una dimensione privata, dove ogni immagine è intima connessione tra collezionista e artista. Il cappello che accompagna le due esposizioni “Me Two”, infatti, non è solo assonanza con il movimento “me too” che ha segnato una svolta contro lo stalking femminile e le molestie sessuali, partendo dal caso di Harvey Weinstein, ma qui è usato come una sorta di duplicazione della personalità/possibilità collezionistica.
Un “io è un altro” che stavolta però viene rappresentato, entità tangibile nel caleidoscopio identitario, grazie allo scatto fotografico.
E, ancora, uno sdoppiamento di una collezione che è passata dall’essere puramente “visuale” ad una tangibilità “caraibica”, raccogliendo le esperienze del collettivo OPAVIVARÁ! piuttosto che gli elementi naturali nelle installazioni di Ernesto Neto o Matheus Rocha Pita (nella mostra “Brasil!”, parte della più recente collezione Esposito)
Una selezione che ogni aspirante collezionista dovrebbe scoprire, così come ogni amante della fotografia contemporanea. Un omaggio a un instancabile ricercatore che, iconicamente, ci viene raccontato anche da Andy Warhol, in un ritratto del 1987 che ci introduce al percorso.
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