Cosa vuol dire riconoscersi? Chi governa i corpi? Ri-scatti. Chiamami col mio nome è un corollario di esperienze, di vite che esistono. Al PAC di Milano, dal 7 ottobre al 5 novembre 2023, 16 persone transgender si raccontano attraverso il mezzo fotografico e lo fanno allontanandosi da logiche estetiche omonormative. Dal titolo apparentemente citazionistico, si avvia un’indagine identitaria, una manifestazione di esistenza. Si parte proprio dal nome, quel nome così centrale in lotte e proteste di riconoscimento sociale. “Chiamami col mio nome” urla “io esisto”. Curata da Diego Sileo, la mostra ha un carattere quasi didascalico, non cerca di essere specchio di una società spettacolarizzante ma è più un farsi carico di quelle realtà, di quelle persone dietro le foto.
Lo spazio si apre con un sillabario, un almanacco didascalico delle identità. Le parole sui muri riportano quelle definizioni spesso volutamente ignorate da una società politica troppo frettolosa a indicare, piuttosto che ad imparare. Grazie a Ri-scatti, l’associazione di volontariato che dal 2014 realizza progetti di riscatto sociale attraverso la fotografia, alcuni fotografi professionisti, volontari dell’associazione, hanno supervisionato e formato 16 persone, trans e non-binary, per portare in mostra i loro vissuti attraverso la macchina fotografica.
Gli scatti sono quelli di Alba Galliani, Antonia Monopoli, Bianca Iula, Elisa Cavallo, Fede, Ian Alieno, Lionel Yongkol Espino, Logan Andrea Ferrucci, Louise Celada, Manuela Verde, Marcella Guanyin, Mari, Nico, Nico Guglielmo, Riccardo Ciardo, Seiko che, in maniera unanime, espongono i propri corpi. Corpi umani, geologici, fatti di memorie, di compresenze e di sussistenze. Corpi che si fanno altro, che mostrano un’evoluzione, spesso non facile da romanticizzare. Corpi identitari che parlano più di libertà, di trasformazione, che di puri e nudi corpi. Riccardo Ciardo, artista in mostra, dice: «Talvolta è straziante convivere con questo corpo, ma mi sento come un bruco prima di diventare farfalla: in evoluzione».
L’intera esposizione è quasi un percorso storico, una narrazione evolutiva del divenire transessuale, avrebbe forse detto Mieli. Invece, parafrasando Preciado, si espongono identità che mostrano un allargamento del ventaglio delle possibilità d’essere. Storie vere, gioiose e alcune volte amare, si mischiano tra vite e farmaci, raccontando di realtà in transizione e auto-riconoscimento.
Quelle foto diventano, oltre a testimonianza visiva, amplificatori di voci, “frame” intimi che mostrano quanto la nostra società sia così ossessionata dal trovare definizioni e bordi identitari, dimenticando che oltre quelle cornici, oltre quelle categorie, esistono mondi fertili e fluidi, che hanno già generato vite. Chiamami col mio nome non è una mostra d’arte, ma una presa di posizione, un riconoscimento di vite altre, è un invito oltre i binarismi, un evento queer che dovrebbe assolutamente essere visto soprattutto da chi non ha il coraggio di vedere oltre.
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