Tahia Farhin Haque è una giovane fotoreporter bengalese che si occupa di “storie non dette” legate principalmente alla condizione femminile: nel suo ultimo progetto Shadows of a wooden House si è confrontata con la storia della sua famiglia costretta, durante la partizione India-Pakistan, alla migrazione forzata dal Bengala Occidentale.
Nel 2018 ha vinto il The New Vanguard Award (premio speciale per il reportage) del Dhaka/Roma. “Mi ha sempre colpito che in famiglia non si parlasse tanto della violenza, quanto con affetto della casa di legno di Calcutta”, spiega Tahia Farhin Haque (Dhaka, Bangladesh 1996) riferendosi al suo ultimo progetto Ombre di una casa di legno presentato a Dhaka Art Summit 2020. Per la giovane fotoreporter si tratta di ripercorrere un momento drammatico della storia attraverso le vicende familiari. Nel ’47, durante la partizione dell’India, sua nonna che era musulmana dovette scappare dal Bengala occidentale, a maggioranza induista, con un bimbo in grembo e l’altro di cinque anni (suo padre) che teneva stretto per mano.
“Per mio padre Calcutta è il luogo natìo, ma non vi è mai tornato. Calcutta è le due case di legno a più piani costruite da mio nonno con i risparmi di una vita, la brezza, i raggi di luce e le melodie del mondo che entravano dalle finestre, i terreni su cui lui bambino si muoveva gattonando, inciampando e imparando a camminare e anche tutti gli altri ricordi lasciati alle spalle, ma rivissuti per almeno un attimo fugace in ogni singolo giorno.” – scrive Tahia Farhin Haque nello statement del lavoro – “I primi cinque anni di un bambino hanno un ruolo cruciale nel suo sviluppo. Mio padre aveva sperimentato e incapsulato l’intero spettro di emozioni, dall’oblio e dalla meraviglia all’euforia e alla gioia trasformati in ansia e terrore, finendo in perdita e disperazione.” Interpretare la realtà attraverso il filtro dei propri sentimenti, della percezione di “famiglia, amore, vita, caos e oppressione” per la fotografa che si è formata nel prestigioso centro di arti visuali Counter Foto di Dhaka (il dipartimento fotografico è stato fondato nel 2012 da Saiful Huq Omi e Andrew Biraj) vuol dire anche elaborare il “trauma trasmesso attraverso il DNA”. Nel 2018 Tahia Farhin Haque ha vinto il The New Vanguard Award (premio speciale per il reportage) del Document Journal e le sue fotografie sono state esposte all’Aperture Foundation di New York. Nello stesso anno è stata scelta per rappresentare il Bangladesh nel progetto This is 18 del New York Times: le sue fotografie a colori mostrano la vita della diciottenne Shama Ghosh che vive nel quartiere indù di Chandpur con il marito, sposato da pochi mesi, e la sua famiglia. “Una volta sposata per una donna non è possibile fare nulla senza il permesso della famiglia, Shama spera di finire la scuola superiore e diventare insegnante.”
Partiamo dalla realtà di questo momento, la quarantena che stai trascorrendo in famiglia a Dhaka. Raccontaci qualcosa della tua quotidinità in tempi di Covid-19…
Nella mia famiglia siamo in cinque, i miei genitori, mia sorella e mio fratello in una casa di circa 220 mq con quattro camere da letto. Trascorro le mie giornate facendo le faccende domestiche, cucinando e leggendo. Lavorare è molto difficile. Siamo in quarantena e sono passate solo poche settimane, c’è tensione.
Cosa vuol dire convivere con la paura di un nemico sconosciuto?
Sono sempre stata una persona estroversa, amo uscire e scattare foto o semplicemente girovagare in città con gli amici. Non so che cosa ci porterà il domani, quando o se le cose torneranno mai “normali”. Il Bangladesh è un paese densamente popolato, temo per il futuro. Qualche giorno fa il nostro vicino di casa è risultato positivo al virus e gli ufficiali hanno sbarrato la casa. I miei genitori sono anziani, temo per loro. Le mie paure interiori riguardano anche il futuro del mio lavoro in un mondo in cui tutto è incerto.
Come fotoreporter la tua vocazione è raccontare attraverso le immagini “storie non dette”, legate soprattutto alla condizione femminile in una società patriarcale, ma anche alle minoranze, alla violenza, all’inquinamento ambientale. C’è una storia che ritieni particolarmente significativa?
Attraverso il mio lavoro racconto la storia di tante donne. Storie in cui, generalmente, è assente il punto di vista femminile. La maggior parte delle donne ha subito abusi, ma a causa del patriarcato siamo state in silenzio troppo tempo, come se fossimo noi a doverci vergognare, quando non è così.
Quali sono le difficoltà maggiori che incontri nel lavorare in un ambiente prettamente maschile?
Per le persone è molto difficile accettare che sono una fotografa professionista. Il più delle volte i lavori vengono assegnati a qualcun altro, forse anche perché sono ancora giovane. Devo fare la voce grossa. Anche viaggiare da sola sui mezzi pubblici, in quanto donna è più difficile. La disparità non è esplicita, a volte è molto ambigua. Sono sicura, però, che sia così ovunque nel mondo.
Ti stai per laureare alla North South University di Dhaka in Scienze Biochimiche e Biotecnologiche. Che rapporto c’è tra i tuoi studi accademici e la fotografia?
La scienza è sempre stata una priorità, i miei studi mi hanno aiutata nella fotografia. Con una borsa di studio ho frequentato la scuola di fotografia CounterFoto conseguendo il diploma professionale. In futuro aspiro a unire i miei mondi, quello della formazione universitaria e quello di fotografa.
Nella serie Behind the veil, che porti avanti dal 2016, spesso i volti delle persone che ritrai sono nascosti dalla luce o dal velo. C’è un significato simbolico?
Non voglio raffigurare la realtà, ma la realtà percepita. Nelle foto a volte mostriamo verità “appariscenti”, io preferisco mostrarle nella mia prospettiva con il mio approccio mentale ed emozionale, attraverso le luci e il velo. Indosso il velo che in occidente è visto come simbolo di oppressione, ma per me è una scelta. Un capo di abbigliamento non dovrebbe essere un invito aperto alla discriminazione.
Tornando all’argomento famiglia, nelle tue foto sono presenti anche i tuoi genitori, in particolare tuo padre e la casa. Perché per te é importante partire dal tuo mondo privato per guardare il mondo?
È facile mostrare la verità di qualcun altro, ma molto più difficile mostrare la propria. Nel mio lavoro volevo essere sincera e sentivo che la storia della mia famiglia era qualcosa di importante di cui parlare. Per Dhaka Art Summit ho realizzato il progetto Shadows of a wooden House sulla partizione del 1947 tra India e Pakistan. In quella data la mia famiglia emigrò dall’India. Lavoro sulla memoria, sulla storia per parlare di argomenti che esistono ancora oggi, che sia razzismo, sessismo, islamofobia. Documentare la mia famiglia è anche un omaggio a questa famiglia che è arrivata così lontano e, come ogni famiglia, continua a combattere.
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