Il 18 febbraio, negli spazi della Fondazione Gianfranco Ferré, a Milano, è stato presentato The spirit of Sahiwal, volume di Sohail Karmani. Per l’occasione, abbiamo intervistato il docente e fotografo pakistano, che ci ha raccontato qualcosa di più, a proposito del suo ultimo progetto e della sua ricerca.
Quando è incominciata la tua passione per la fotografia? Perché sei diventato fotografo?
«C’è sempre stata dentro di me la voglia di fotografare, la cosa è diventata più seria nel 2010 quando per la prima volta mi sono recato in Pakistan, terrà d’origine dei miei genitori.Da quel momento è nata dentro di me la voglia di documentare, catturare volti e storie e raccontare uno spaccato di mondo attraverso le immagini di alcune persone».
Quale soggetto fotografico scegli? Che cosa ti attrae maggiormente?
«Tramite i volti e le persone vorrei comunicare l’animo di un paese, sono ritratti ambientati con lo scopo di comunicare la realtà in cui è vissuto mio padre. Dopo aver raccolto un numero cospicuo di foto, con l’aiuto di Francesca Interlenghi, prima promotrice del mio progetto, e constatato che sui social molte persone erano interessate ai miei scatti, ho deciso di realizzare una pubblicazione fotografica».
Che qualità deve possedere una fotografia per essere considerata artistica?
«Dal 1839 c’è un’attenzione particolare tra arte e reportage e per quanto mi riguarda la fotografia può essere arte ma anche specchio della realtà. Il mio lavoro ha da un lato un occhio attento alla luce, ai colori, alla composizione; tutti elementi importanti per creare una certa atmosfera ma dall’altro lato c’è anche la voglia di comunicare una cultura con tutte le sue peculiarità. La mia fotografia è un mix, da una parte quello che gli inglesi chiamano “Fine art photography” e dall’altra il reportage».
Quanto c’è di autoreferenziale nelle immagini che hai scattato?
«La mia volontà è quella di creare un “mood” e comunicare l’essenza del paese attraverso di me, proprio per questo il libro si intitola The Spirit of Sahiwal. Fondamentale è creare un’energia emotiva, ci dev’essere un feeling con quello che c’è dall’altra parte della macchina fotografica, si deve creare una sinergia chimica».
Che cosa vuoi trasmettere attraverso questa pubblicazione?
«Siamo in un periodo storico in cui invece di andare avanti siamo tornati indietro di dieci anni. Mi riferisco alla Brexit in Inghilterra e spesso alcuni paesi non vengono visti di buon occhio, idee superficiali che fraintendono luoghi come il Pakistan. La mia volontà, con questo libro, è quella di comunicare una certa umanità, andando oltre quei discorsi popolari, modi riduttivi di vedere un paese e provocare un dibattito per cercare di cogliere quello che non è visibile a molti. È un progetto completamente finanziato da me, in cui sono le mie passioni ad emergere e quello che secondo il mio io risulta essere affascinante».
Progetti futuri?
«Oggi vivo negli Emirati Arabi e vorrei mostrare Abu Dhabi diversa dai grattacieli e ricchezza per cui viene presentata in genere ma anche per altri lati nascosti che essa possiede. Un progetto che sto iniziando ma non so se avrà una fine e dove mi porterà».
Sohail Karmani è professore ordinario presso la New York University di Abu Dhabi, dove attualmente tiene il corso Power and Ethics in Photography. Ma è anche un appassionato fotografo che ha sviluppato nel tempo un proprio linguaggio narrativo incentrato sulla gente, i viaggi, la strada e la fotografia documentaria.
Proveniente da una famiglia di origini pakistane, nel 2010 si è recato per la prima volta a Sahiwal, città che ha dato i natali a suo padre, nel distretto centro orientale di Punjab, meglio conosciuto come il sito dell’Antica Civiltà della Valle dell’Indo (o civiltà di Harappa) e risalente al terzo millennio a.C.. Sopraffatto dai colori, dalle vibrazioni, dalle storie racchiuse in ogni angolo di strada, ne ha tratto la ricognizione fotografica oggetto di questo libro che vuole essere un omaggio alla bellezza, all’umanità, alla dignità e allo straordinario spirito di resilienza di questo popolo.
Mantenendosi lontano dal cliché dolorosamente affascinante di un Oriente fatto di ultimi e di dimenticati, evitando qualsiasi spettacolarizzazione o strumentalizzazione della sofferenza, il libro di Sohail Karmani presentato allo Spazio Ferré offre uno spaccato ravvicinato e, in molti casi, intimo, della società sahiwaliana.
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