Alcune sono immagini stratificate nella nostra memoria, quelle per cui alcuni luoghi di Milano saranno sempre e solo così. Come le vie del quartiere di Brera e i locali, il Jamaica in particolare, o le periferie della città in crescita nel Dopoguerra: vitale e feroce, travolta nel fervore economico sociale del periodo. Scatti della vita quotidiana, della Stazione Centrale con i grandi arrivi dal Sud, e i quelle dei dormitori e delle case popolari. Ce ne accorgiamo che sono immagini imprigionate nei nostri ricordi, quando ci stupiscono ancora a Palazzo Reale a Milano (fino al 2 febbraio 2025) per la mostra Ugo Mulas. L’operazione fotografica, curata da Denis Curti e Alberto Salvadori, che ruota attorno a un nucleo consistente di immagini su Milano.
Scatti, quasi tutti, che si possono definire senza dubbio iconici. Anche perché le foto di Mulas non sono mai solo documento, una semplice registrazione di un dato: ma il risultato di “un’operazione conoscitiva” come amava ripetere, da teorico e sperimentatore del mezzo fotografico quale è stato per tutta la vita. E’ una narrazione consapevole, un’operazione fotografica appunto. Lui stesso affermava: «Al fotografo il compito di individuare una sua realtà, alla macchina quello di registrarla nella sua totalità». (…). «Quando scattiamo una fotografia, produciamo un “controscatto”: meccanismo simile al rinculo di un fucile dopo lo sparo, per cui al centro dello scatto c’è il fotografo stesso, nascosto nell’oggetto o nel paesaggio raffigurato».
Ecco perché riescono a raccontare un’epoca anche i suoi ritratti di alcuni dei suoi interpreti, fondamentali per l’arte e la letteratura e per la cultura di quel fertilissimo periodo. Anch’essi diventati indimenticabili. Come la foto di Eugenio Montale con l’upupa, o quella del pittore Giorgio De Chirico, o della giovanissima Carla Fracci. Ugo Mulas è stato anche considerato “il fotografo degli artisti”, che erano figure fondamentali della sua vita. Anche in questo caso le foto diventavano “operazioni conoscitive”: gli artisti nella sua narrazione fotografica sono vissuti intensamente e e a lungo nei loro studi (in particolare quelli della Pop Art a New York) perché questo era il suo modo di lavorare. Nessuno scatto coglie l’attimo unico o l’evento raro, ma rappresenta il capitolo di un’ampia composizione. Altrimenti come sarebbe stato possibile il capolavoro, ovvero la “cronaca” del taglio della tela di Lucio Fontana, per fare un esempio? La serie di fotografie e l’opera stessa sono punto di snodo nell’arte contemporanea. Ma la mostra ci offre una grande possibilità: conoscere Ugo Mulas come “fotografo totale”, come lo ha definito Germano Celant, il suo punto di vista su moda, teatro (grazie anche a una lunga collaborazione con Giorgio Strehler), industria e nei suoi reportage. Come i suoi scatti riescono a inquadrare la Germania del Dopoguerra? «Mulas era anche un fotografo concettuale», spiega Alberto Salvadori, curatore del suo archivio, «perché nella sua ultima serie intitolata Le verifiche fa un’operazione metafotografica, va oltre la fotografia intesa come riproduzione di ciò che si vede».
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