Ideata dalla Fondazione Musica per Roma, World Cityscapes è la rassegna di fotografia contemporanea accessibile a tutti che fonda la sua spettacolare semplicità sulla potenza delle immagini.
Dal 18 dicembre al 18 gennaio, sulla cupola Sinopoli dell’Auditorium Parco della Musica viene proiettata una fotografia al giorno che illumina il cielo dal tramonto all’alba. Le trentadue opere ritraggono città e metropoli di tutto il mondo, dall’Europa all’Africa, dalle Americhe all’Asia, interpretate da quindici fotografi italiani: Gabriele Basilico, Vincenzo Castella, Francesco Radino, Giovanna Silva, Andrea Abati, Carmelo Nicosia, Olivo Barbieri, Valentina Sommariva, Giovanni Hanninen, Luca Campigotto, Francesco Jodice, Giulia Ticozzi e Giuseppe Fanizza, Walter Niedermayr, Cristina Omenetto.
La proiezione funziona come un meraviglioso slide show urbano, in cui ogni aspetto è ingrandito e dilatato: la dimensione delle fotografie, l’ampiezza dello spazio di fruizione e la durata temporale delle singole immagini e dell’intera sequenza. Ne parliamo con Filippo Maggia, curatore del progetto.
Come e quando è nato World Cityscapes?
«Ho ricevuto la proposta di curare questo progetto da Daniele Pitteri, Ad della Fondazione Musica per Roma, il quale ha declinato un esperimento messo in atto in occasione della scomparsa di Gigi Proietti: sulla cupola Sinopoli è stata proiettata una bellissima fotografia dell’attore con le braccia spalancate ad accogliere e stringere tutta la città. Sulla scia dell’emozione suscitata da quest’immagine, mi è stato chiesto di pensare a una nuova proiezione di immagini. Il progetto non è nato da un’idea predefinita, ma bensì è stato elaborato sulla base del confronto e della condivisione».
Come si realizza nella pratica una proiezione fotografica nel bel mezzo del quartiere Flaminio?
«Si realizza utilizzando un proiettore ad altissima definizione. Si chiede ai fotografi di fornire delle fotografie in un formato specifico o comunque adattabile e che, una volta proiettate sulla cupola, conservino una resa tale da poter essere godute a grande distanza. Non devono contenere elementi troppo ravvicinati o presentare colori molto tenui, altrimenti i contorni rischiano di impastarsi o di disperdersi: devono essere ben definite e perfettamente leggibili».
Le fotografie colmano le distanze tra luoghi lontani con la loro forza evocativa. Per quale motivo hai deciso di affrontare il tema del paesaggio urbano e, indirettamente, del viaggio e che valore ha questa scelta nel periodo di isolamento che stiamo vivendo?
«La scelta non è stata immediata. Dal momento in cui ci si è visti costretti entro i limiti territoriali, il tema delle città mi è parso particolarmente adatto a una rassegna che desiderava evadere dall’ordinario per supplire alle mancanze di questo periodo. Abbiamo tutti nostalgia dei viaggi. Con Francesco Jodice parlavamo di quanto ci manca l’aria pressurizzata dell’aereo: quel momento in cui ti siedi, poggi la testa sullo schienale e inali quell’aria che sa di partenza, di novità. L’idea è stata quella di procurarci un viaggio e condividerlo con tutti. Così, passiamo dalle grandi metropoli come Tokio, New York e Shangai a luoghi come Mumbai, Addis Abeba e Damasco. La rassegna si è aperta con l’immagine emblematica di piazza Campo de’ Fiori durante il lockdown, bellissima, deserta e muta, seguita da Varanasi con i suoi pellegrini immersi nel Gange. Abbiamo scelto il tema dello spazio urbano non solo per la definizione ottimale che offre nel grande formato, ma soprattutto perché le visioni di quei luoghi non rientrano né nella categoria della fotografia di architettura né in quella della street photography. Abbiamo voluto mostrare il mondo attraverso le sue città, fatte dei paesaggi e delle persone che le abitano e le attraversano».
I quindici fotografi partecipanti a World Cityscapes hanno stili e approcci all’immagine diversi. I punti di vista dei loro scatti sono bassi e orizzontali o molto alti e panoramici; la luce scandisce o dissolve le forme, per alcuni è calda e carezzevole, per altri netta e tagliente; alcuni giocano con la saturazione, altri compongono scorci prospettici in bianco e nero; alcuni si interrogano sull’ambiguità tra grande e piccolo, altri sugli effetti stranianti delle sovrapposizioni. Secondo quale criterio li hai selezionati?
«Avremmo voluto coinvolgere artisti internazionali, ma l’impossibilità di reperirne le opere in tempi molto brevi ci ha portati a limitare il campo agli italiani. Il criterio fondamentale è stato quello di evitare di assumere una visione univoca, offrendo diversi punti di vista sul paesaggio urbano. Ad esempio, rispetto a Gabriele Basilico, indiscusso punto di riferimento di questo genere in Italia, Francesco Radino, con la sua ricerca quasi antropologica, è senz’altro un autore più vicino alla gente. Olivo Barbieri è uno sperimentatore, mentre Vincenzo Castella ha un intento in qualche modo sociologico: mette a fuoco, sbianca o colora porzioni di città per dare consistenza a dei frammenti di vita urbana. A queste differenze se ne aggiungono altre di tipo generazionale, che determinano una molteplicità di esigenze e di ricerche. Per i più giovani come Giovanni Hanninen, Giovanna Silva, Giulia Ticozzi e Giuseppe Fanizza, il discorso si avvicina allo storytelling, legato com’è alla storia, all’identità e alla memoria dei luoghi».
Le immagini digitalizzate si materializzano sulla superficie esterna e sfaccettata della sala Sinopoli, facendo interagire fotografia e architettura contemporanee in un meraviglioso intervento di arte urbana. Qual è il valore di questa iniziativa in termini di interazione tra i lavori dei fotografi e il progetto architettonico di Renzo Piano?
«Questa iniziativa è stata un esperimento al quale gli artisti hanno aderito con grande entusiasmo: l’idea di vedere le proprie opere esplodere sulla cupola li ha davvero coinvolti. Credo sia una manifestazione innovativa per il nostro paese. Mentre in luoghi caratterizzati da molte ore di oscurità come la Svezia, la Germania e l’Inghilterra, capita di vedere il cielo illuminato da proiezioni fotografiche, in Italia questo rappresenta qualcosa di completamente diverso da ciò a cui siamo abituati. L’Auditorium poi è senz’altro un luogo molto particolare e attraente. Dialogare con l’architettura di Renzo Piano rappresenta una sfida complessa, ma la cupola Sinopoli, con l’ampiezza della sua superficie, si presta molto bene a questo tipo di interventi. L’effetto è molto potente, è come un flash: inaspettato e straordinario».
Come avvenne in occasione della tua mostra “La voce delle immagini”, in cui fotografia e musica dialogavano all’interno dell’Auditorium, per questa proiezione a cielo aperto è previsto un accompagnamento musicale. Di cosa si tratta?
«Un paio d’anni fa curai anche un programma di dieci puntate per Radio3 in cui la musica e la fotografia dialogavano con la letteratura. Credo che la relazione tra diverse forme d’arte sia molto coinvolgente. Per World Cityscapes inizialmente avevamo pensato di sonorizzare il colonnato d’ingresso all’Auditorium con una musica che fosse in sintonia con il luogo dell’immagine. Alla fine, invece, la Fondazione Musica per Roma ha deciso di collegarsi ogni notte con una radio della città proiettata sulla cupola, in modo da evocare atmosfere e suscitare emozioni legate a quei luoghi in un modo che fosse il più possibile “live”».
In un momento in cui i musei sono chiusi al pubblico, la proiezione in formato gigante nello spazio esterno della città rende la visione delle fotografie accessibile a tutti. Quali effetti pensi possa avere questo progetto in termini di avvicinamento del sistema artistico ai cittadini?
«Abbiamo immediatamente colto lo straordinario effetto sorpresa generato da queste immagini. Inoltre, poiché è noto che la proiezione include trenta città diverse, questo viaggio ideale crea un certo senso di attesa: “se oggi vedo Dakar, domani quale luogo vedrò?”. Ci saranno persino un paio di sorprese nella sorpresa, che abbiamo deciso di non svelare. Credo che coloro che si interessano di arte apprezzeranno molto l’iniziativa, ma da sottolineare è soprattutto la reazione dell’ampio pubblico di cittadini che, affacciandosi alla finestra o passeggiando per la città, inciamperà in queste enormi immagini e ne rimarrà meravigliato. Soprattutto nel periodo che stiamo vivendo, trovo molto bella l’idea di offrire a tutti i romani una buona ragione per mettere il naso fuori di casa e fare due passi all’aria aperta».
I tempi di World Cityscapes, sottoposti ai mutamenti della luce naturale, sono lenti e ciclici. Questo rende la proiezione un’esperienza rispettosa dei tempi dell’osservatore, contrastando l’abitudine diffusa alla consultazione bulimica e frettolosa delle immagini. In che modo pensi che questa possibilità di fruizione rallentata possa influire nell’immaginario collettivo?
«In merito ai tempi della proiezione, avevamo la necessità di sfruttare il periodo invernale di massima oscurità e l’intenzione di colmare i giorni di queste insolite feste natalizie. Gli effetti visivi e la leggibilità delle fotografie cambieranno in base alle fasi lunari e questo aspetto di interazione tra le immagini e i fenomeni atmosferici è molto interessante. Siamo abituati alle foto riprodotte in piccolo formato, sui cataloghi o tutt’al più a parete, ed è davvero incredibile vederle illuminare le notti di Roma: sembrano fluttuare nel cielo, si smaterializzano ed entrano a far parte dell’immaginario comune. L’Auditorium ha prodotto anche un taccuino in cui sono riportati gli scatti nel loro formato originale, nonché un calendario con una selezione di dodici luoghi che ci accompagneranno nel corso dell’anno. Quindi, la rassegna offre una doppia possibile fruizione: da una parte, una meravigliosa proiezione urbana, dall’altra un ritorno agli spazi tradizionali della fotografia che consente un’appropriazione più intima delle immagini».
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