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Una, nessuna, centomila comunità: intervista a Paola Di Bello
Arte contemporanea
Paola di Bello, artista concettuale, racconta il suo punto di vista intorno al tema di cittadinanza e di comunità, complessa e contraddittoria in una serie di opere esposte nella mostra antologica nata in collaborazione con il curatore Francesco Zanot e di Renata Bianconi, sua gallerista e complice.
Perché e da quando il tema intorno al concetto di comunità, cittadino, ricerca di appartenenza caratterizza la tua ricerca “foto/antropologica”?
«Si tratta di un tema fondante della mia ricerca artistica, un fil rouge da sempre presente nel mio lavoro. Sono nata a Napoli (1961) e mi sono formata nell’ambiente che circondava la galleria di Lucio Amelio, insieme a mio padre Bruno Di Bello e con personalità quali Joseph Beuys, Giulio Paolini… Fin da piccola mi fu subito chiaro di come per me l’arte dovesse essere prima di tutto lo specchio dell’impegno civile e sociale di ciascuno di noi».
Che opere hai scelto in occasione della tua mostra antologica, intitolata “Citizens (1988/2006)” alla Galleria Bianconi di Milano?
«Insieme al curatore Francesco Zanot e alla gallerista Renata Bianconi abbiamo riflettuto a lungo e con molta attenzione riguardo a quali cicli selezionare per questo importante progetto. Alla fine abbiamo deciso di concentrarci sul tema, come dice il titolo stesso, dei “cittadini”, intesi come una comunità avanzata definita da reciproci rapporti di diritti e doveri all’interno di una società organizzata. I diversi cicli di lavori scelti – Lucciole, La disparition, Bildung,Video-Stadio, Rischiano pene molto severe, Sao Paulo, Cosa si vede a Mirafiori. Cosa vede Mirafiori e Framing the Community – che percorrono un arco di tempo di quasi vent’anni, dal 1988 al 2006, danno vita ad un percorso espositivo che si divide in due vie. La prima quella delle serie realizzate attraverso un processo di partecipazione dei soggetti/cittadini, la seconda quella delle opere generate dalla pura osservazione dei soggetti stessi».
Perché le due opere storiche del ciclo Lucciole (1988/1991), sintetizzano il tuo periodo dedicato alla sperimentazione di nuove tecniche fotografiche condivise con tuo padre Bruno Di Bello, noto per le sue ricerche innovative?
«Il mio rapporto con la fotografia è quasi ancestrale, affonda le sue radici nella grande tradizione fotografica, nei dagherrotipi, nella fotografia analogica e soprattutto nella “camera oscura ” di mio padre in cui il mio desiderio di divenire artista si è fatto realtà concreta e tangibile. È così che il mio primo lavoro di grande respiro, divenuto poi iconico ed entrato a far parte d’importanti collezioni, è un lavoro in netta ed assoluta contrapposizione con mio padre. Mentre mio padre Bruno utilizzava la luce per creare un segno pittorico perfettamente controllato dall’Artista, con la serie Lucciole, realizzate senza l’uso della macchina fotografica grazie all’incedere degli insetti sulla pellicola, do vita, attraverso la traccia lasciata dalla loro luce, ad un segno pittorico di cui l’artista ha perso il controllo».
Luci e ombre della metropoli sono le contraddizioni evidenti in otto significativi cicli di lavori in versione originale, esemplari unici, stampe vintage irripetibili ai fini di valorizzare le loro caratteristiche tecnico-fisiche per documentare percezioni, sguardi, intuizioni soggettive in relazione ai luoghi, architetture, persone e alla luce, cosa ti interessa rivelare della nostra complessa società?
«Ciò che mi ha sempre interessato non è l’immagine patinata, glamour, appartenente all’estetica di un mondo perfetto ed irraggiungibile tipico dell’immaginario contemporaneo dei magazines di moda o altro che hanno dato vita ad una società basata sul culto dell’immagine e dell’autocelebrazione. Le mie fotografie sono brutali, scientifiche, oserei dire, e come la scienza portano con sé un’intrinseca armonia. Le mie opere denunciano e insieme, attraverso il mio sguardo, esortano ad un atto d’amore fra le persone che conduca ad una via d’uscita dalle contraddizioni che, noi, con la costruzione di una società urbana e capitalistica, abbiamo generato. Non a caso questa mostra si apre con il ciclo Rischiano pene molto severe (1998), vero manifesto di questo mio pensiero, in esse gli homeless che popolano le nostre città – Milano in questo caso – vengono resi visibili. Per mezzo di una semplice azione di ribaltamento dell’immagine (da orizzontale a verticale) costringo l’osservatore a entrare in relazione empatica con loro. La sofferenza e l’emarginazione non possono più essere ignorate».
Tra le opere esposte come specchio di un’indagine fotografica sociale, in quale ti rispecchi di più e la consideri ancora attuale?
«Per me, come credo per tutti gli artisti, non c’è un’opera che mi rispecchi maggiormente, sono tutte attuali, nessuna è passata. Sono tutte specchio del mio pensare, agire e creare».
Quanto influisce la luce nello scatto delle tue opere e perché?
«La fotografia nasce con la luce. Fin dai suoi albori è la luce che, attraverso lo scatto, lascia il suo segno indelebile, sulla lastra, prima, sulla pellicola, dopo. E anche oggi, nonostante le nuove tecnologie, la luce è, per me, elemento imprescindibile e sostanza stessa della materia fotografica».
Oltre alla fotografia ti affascina anche il video, come nasce São Paulo (2002) realizzato con Armin Linke? Perché il Video-Stadio (1997), incentrato sulla resa ipnotica di una delle tue torri di San Siro è sempre contemporaneo ?
«Per me la fotografia è una materia porosa che porta ad una ibridazione di tecniche e linguaggi. Il video è uno di questi. In questa mostra sono esposti due video – Sao Paulo e Video-Stadio – in cui mi sono concentrata, come nei cicli fotografici La disparition e Cosa si vede a Mirafiori. Cosa vede Mirafiori, sul tema del rapporto con il territorio. Sono le strade, le architetture, i simboli dell’urbano che colgono la mia attenzione. Come il curatore Francesco Zanot ben descrive nel testo che accompagna il catalogo della mostra, São Paulo (2002), realizzato in collaborazione con Armin Linke, è il resoconto dell’attraversamento delle due più grandi favelas della città brasiliana: Heliòpolis e Paraisòpolis. Non c’è narrazione, ma soltanto il susseguirsi di una serie d’incontri con persone e cose: baracche, rifiuti, bambini, letti, televisioni, galline, panni stesi, sassi… La videocamera ruota ininterrottamente verso destra, come se il mondo fosse un rotolo dipinto. Video-Stadio (1997) è, sempre come sottolinea il curatore della mostra, l’esatto opposto di São Paulo. In São Paulo la camera ruota senza sosta e i soggetti restano fermi al loro posto; in Video-Stadio al contrario ho tenuto un’inquadratura fissa davanti a una moltitudine di persone in movimento: il pubblico di una partita di calcio scende lungo due torri dello stadio di San Siro al termine della partita. L’andatura è tanto coordinata da generare l’effetto ottico della rotazione dell’architettura stessa: le torri girano su sé stesse come gigantesche viti. Unita, la comunità dei cittadini riesce nella titanica impresa di mettere in moto tonnellate di cemento piantate nell’asfalto».
Affianchi alla tua ricerca artistica di matrice concettuale, l’attività di direttore del dipartimento di New Media presso l’Accademia di Brera, Milano, quanto incide il tuo rapporto di scambio con gli studenti sul tuo lavoro?
«Come puoi avere intuito il rapporto con gli altri per me è fondamentale sia nella mia vita che nella mia opera. Esse non sono distinte ma uno entra nell’altra come vasi comunicanti. È per questo che in questa mostra alla Galleria Bianconi ho deciso di esporre il lavoro Bildung (1995-2003), parola che in tedesco significa “formazione”, appunto! In questo lavoro ogni singola opera è composta da una coppia di ritratti: l’immagine di uno studente di liceo colto il primo anno il primo giorno di scuola e l’ultimo anno, l’ultimo giorno dopo l’esame di maturità. Quello che vi è in mezzo, qui metaforicamente descritto dalla striscia bianca della pagina del libro che ogni coppia d’immagini idealmente rappresenta tramite l’incorniciatura da me attuata, è la trasformazione che avviene in quegli anni di formazione fondamentali, per ciascuno di noi, per diventare uomini e donne attivi nella società».
La fotografia è relazionale? Perché?
«La fotografia di per sé non è relazionale, ma dipende da come la usi. L’arte tutta, non solo la fotografia, può esserlo. Un’opera non da vita ad un monologo solitario, ma ad un discorso corale che vuole parlare a tutta la collettività umana».
A quale progetto stai lavorando?
«In questo periodo sto lavorando ad un’altra tappa del progetto Framing the Community: progetto in divenire, dedicato al concetto di “comunità”, iniziato nel 2006 che per adesso non ha un termine temporale».