Venezia…non l’avete mai vista così

di - 10 Settembre 2021

Tutti credono di conoscere Venezia. Tutti vogliono esibire il proprio rapporto esclusivo con lei. Qualcuno conosce un’osteria dove i turisti proprio non vanno, qualcun altro racconta di quando è uscito ubriaco da un’improbabile casa di studenti; chi si mette a far politica però non viene da qui, chi ha comprato un pezzo di storia per farne un bar. Poter dire di averne catturato anche solo per un attimo l’essenza è come voler esibire uno status. Siamo a 1600 anni dalla fondazione di quest’anomalia urbanistica e architettonica, le mani sulla città ce la hanno messe tutti: residenti che vendono ai cinesi, veneziani in fuga per mettere in affitto alloggi ereditati, stranieri che imparano attività tradizionali per fagocitare quel genius loci che gli autoctoni hanno ormai sublimato da generazioni.

Cannaregio, Fondamenta dei Mori, 2016, copyright: Mario Peliti

“Hypervenezia” ci sembra il tentativo estremo di fare un passo di lato, di uscire dal chiché per proporne una visione scientifica, da entomologo, dicono gli spilli conficcati nelle abbondanze bianche che fanno da cornice alle fotografie. Mario Peliti si disciplina attingendo ad una pulsione quasi ossessiva che gli fa accumulare immagini della città rigorosamente bicromatiche, in cui ombre ed esseri umani non possano intaccare la perfezione delle architetture. 300 dei 12.000 scatti che vengono mostrati oggi per dare il senso di un percorso in divenire, che si prevede potrà esaurirsi non prima del 2030, in cui Piazza San Marco ha lo stesso peso di una qualsiasi calle Drio la chiesa. Scatti che vogliono mappare la città quasi come un analogico ed elegante Google Street View, in cui non si tutela la privacy dei cittadini oscurando visi, ma occultando corpi.
Quella che va in mostra a Palazzo Grassi allora è una straniante e rigorosa camminata lineare tra i sestieri di Venezia, sintetizzati in sigle numerate che ne ricostruiscano il percorso. Nella ripetizione si innescano giochi spontanei, la ricerca da parte del pubblico di umani, il riconoscimento di luoghi vissuti; lo straniero come il veneziano cercano punti di ancoraggio, vogliono dimora, un appiglio che permetta umanità, in un panorama che si fa giocoforza morente, per la totale assenza di vita che esonda dagli scatti e che, ahinoi, siamo stati costretti a conoscere in tempi recenti. Per alcuni il desiderio di marcare la differenza passa attraverso il voler verificare la veridicità dell’assunto: davvero di umani non ce ne sono proprio? Non entrano mai, per 12.000 volte, nell’obiettivo della macchina fotografica? C’è chi dice di aver intravisto un fantasma, chi l’immagine riflessa del fotografo come un cammeo che ne sveli la presenza: almeno lui, testimone muto e esecutore, c’era.

Castello, San’Elena, Stadio Penzo, 2021, ph. Mario Peliti

Difficile sentire completamente il senso di vuoto durante un opening, servirebbe qualcosa di più per farsi catturare dalle immagini ipnoticamente scandite dalle musiche di Nicolas Godin, quello che d’altra parte accade con la proiezione innestata al centro del percorso espositivo, in cui tre grandi schermi propongono una partitura visiva delle stesse foto che ne compongono l’ossatura. Forse questa sala trapezoidale ricavata nel cuore del primo piano, con foto in grandezza naturale che occhieggiano all’immersivo per contenere la versione video di quella cruda mappatura che aveva un senso proprio per il suo non fare sconti, tende un po’ troppo la mano al pubblico, così come la mappa di Venezia fatta di fotografie, più adatta ad una campagna di marketing che ad una sala di museo. Sbilanciamenti che, alla fin fine, non rendono giustizia ad un’operazione che, come ben sottolinea il Direttore Racine, finisce per restituire un’immagine della città lontanissima da quella canonica, e proprio questo rende interessante lo sforzo titanico di una mappatura che punta ad essere esaustiva.

Castello, Calle Sagredo, 2020, ph. Mario Peliti

Questo tenendo presente che “Hypervenezia è un’immersione in una Venezia come non si è mai vista e come non si vedrà mai. Nonostante la raffigurazione iconica che tutti conosciamo e riconosciamo, questa Venezia appartiene a un mondo parallelo, a un simulacro in cui è impossibile distinguere il falso dal vero, l’artificiale dal reale, l’oggetto dalla sua rappresentazione”, scrive il curatore Matthieu Humery. Scorci di città vuota che prima del 2019 avevano avuto solo abitanti fuori ritmo, desiderosi di immergersi nell’alba che chiude la notte o in un inizio anticipato di giornata.
Un fotografo, Mario Peliti, che non fa parte della Collezione Pinault, attraverso il quale il collezionista francese ha voluto omaggiare una città che sente sua e a cui Palazzo Grassi, in questo modo, propone un tributo tacito e importante, una riflessione dovuta su un vuoto che risuona nella scomparsa dei suoi abitanti, nella mercificazione che fa parte inesorabilmente della sua identità, nelle contingenze amare di quest’inizio di anni Venti del nuovo millennio.

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