Sebbene nell’anno in corso ricorrano i cento anni della nascita di uno dei suoi figli universalmente più illustri –Leo Castelli, noto per essere stato uno dei più grandi galleristi e promotori di arte contemporanea–, Trieste ha deciso di dedicare le celebrazioni del centenario al più noto dei suoi artisti (stra)cittadini, quasi sconosciuto nel resto del Paese. Il che onestamente dà un po’ l’impressione di un’occasione persa. Ciò non ha comunque impedito ai curatori di organizzare una interessante retrospettiva, analitica e colta, ospitata nell’Ex Pescheria Centrale (che qualche assessore o funzionario, in un eccesso di zelo, ha provveduto genialmente a ribattezzare, per motivi che agli stessi triestini sfuggono,
Salone degli Incanti). Raccolte sotto le ampie volumetrie dell’edificio trovano spazio le sculture di
Marcello Mascherini (Udine, 1906 – Padova, 1983), messe a confronto con alcuni dei più blasonati colleghi italiani ed europei. Le opere sono suddivise in dieci sezioni in un allestimento asciutto ed essenziale, che ricorda vagamente la disposizione di talune mostre di reperti archeologici, ma è funzionale. E il percorso è tale da stimolare i confronti e le analogie auspicate dai curatori.
Nato a Udine per volontà della madre di partorire in Italia, Mascherini vive a Trieste –seppure con una parentesi come sfollato a Isernia– e si trova a operare negli anni del primo dopoguerra e del successivo passaggio della città giuliana all’Italia. Gli artisti presenti in città, cui è dedicata la prima sezione, sono attardati su modelli tardo-ottocenteschi. Mascherini, insieme all’amico e collega
Franco Asco, guarda quindi al lavoro di
Adolfo Wildt e
Max Klinger, riprendendone tanto i soggetti quanto il linguaggio plastico. Ecco così rispettivamente affiancate due figure femminili e due ritratti di Beethoven, realizzati però da Mascherini in gesso e gesso patinato, del tutto visivamente simile al bronzo ma in una soluzione più economica.
Successivamente, le opere dello scultore giuliano si evolvono in chiave più antinaturalista, sensibile tanto alle istanza arcaista di
Arturo Martini quanto al recupero del classicismo.
Negli anni ‘30 Mascherini è ormai un autore affermato. Partecipa alla Biennale di Venezia -vi parteciperà una decina di volte in totale, in un’occasione con una sala personale- e di frequente realizza bronzi di piccole dimensioni, in mostra messi a confronto con lavori simili di
Dino Basaldella e di
Martini, i quali in verità trasmettono una maggior carica e pregnanza emotiva. Progressivamente, le figure femminili di Mascherini si fanno più corpulente (
Pomona,
Nuda che ride) e, alla ripresa delle attività dopo l’evento bellico, Mascherini si dedica alla decorazione navale e riceve un’importante commissione dall’Università di Trieste, per la quale realizza l’
Anello degli Argonauti.
Seguono gli anni degli
ismi, del rifacimento, spesso perfino imbarazzante, degli altri scultori -da
Henry Moore a
Reginald Butler, a
Kenneth Armitage– come testimoniato in mostra da una quasi perfetta corrispondenza con gli originali. Da qui al momento del ritiro, lo scultore sembra quindi ripiegato su sé stesso, in un momento di involuzione e mancanza di idee, cui non resta che fare, meccanicamente,
alla maniera di.
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uno scultore italiano di secondaria importanza per un'operazione culturale ben lontana dalla scoperta del genio; ricerca anche scientifica di cui i curatori dovrebbero essere i più insigni rappresentanti (insegnano vero?)
Per un imperdonabile errore in fase di editing dell'articolo (in cui ho omesso un periodo) ho attribuito l'Anello degli argonauti ad una commissione dell'Università di Trieste mentre in realtà era destinato alla decorazione delle sale di una nave da crociera. Il lavoro di dello scultore troverà poi posto anche presso l'Università, oltre che al Museo della Scienza di Milano. Me ne scuso con i lettori.