Con
Suite from the museum of guilt del compositore e sound designer
Teho Teardo (Pordenone, 1966) Villa Manin congeda anche lo
Spazio FVG che, dopo quattro anni di attività, chiude definitivamente i battenti. Lo fa in modo scenografico e teatrale, con un’installazione site specific che, con le sue alterate sonorità, investiga le trame di un genere musicale in auge nell’epoca barocca.
Per portare a compimento tale sperimentazione, l’autore sceglie le due sale più sontuose della residenza – quella delle Prospettive e del Bigliardo Dogale – decorate da affreschi settecenteschi e impreziosite da raffinati lampadari, alle quali si accede dopo aver varcato una tenda che le isola dal resto del contesto. Si fa così l’ingresso, quasi in punta di piedi, meravigliati ancora una volta dalla bellezza intramontabile di una
diva che, nonostante le luci soffuse, non riesce – come al contrario gli intenti vorrebbero – ad adombrare.
La soluzione allestiva, che vede casse posizionate alle estremità, lettori esteticamente incongruenti e rumorose sedie-poltrone collocate di fronte a essi, appare risolta in modo indolente, quasi distratto, dando un’impressione didascalica e superflua. Le melodie stesse (celebrative prima, meste e cupe poi) si diffondono con impercettibili sfasature nei tempi d’esecuzione e paiono ricercare vanamente quell’accordo elettivo, quella magica e suggestiva coesione con l’ambiente circostante in cui Teardo solitamente eccelle, come nell’incisiva fusione fra immagini e suoni de
Il Divo.
Scintilla che in questa prova installativa purtroppo non brilla: tutto sembra fumoso, privo della potenza di ottundere e plasmare paesaggi. Tutto è svelato ai nostri occhi ma, come afferma
Chiara Guidi della Socìetas Raffaello Sanzio, “
l’abilità di un suono organico sta nella sapienza artistica di colui che, pur usando una macchina attaccata alla luce, non fa sentire la corrente”.
E, non a caso,
Ciò che resta (citando il titolo del testo incluso nel delizioso cofanetto porta cd) di questa serata è proprio la voce dell’intensa Guidi, che irrompe prepotente nel salone principale con
Ingiuria. Una sequenza utile per imprecare. Litania cupa, violenta e disperata, presentata a Villa Manin in prima nazionale con le musiche di Teardo, la cui ricerca ruota attorno a un’idea di voce come cura. Una voce “
molecolare” che, grazie alla ripetizione delle medesime parole, si fa forma e sostanza sempre nuova, capace di creare un contatto fisico con gli astanti.
Le inflessioni viscerali e materiche, cariche di malefica suadenza, la sua presenza severa e ipnotica e la sua carica espressiva e visionaria riescono a penetrare e ad annidarsi anche nell’animo dello spettatore più scettico e imperturbabile, ospite ingombrante che tutto eclissa e ridisegna.