Sono passati ben ventisei anni
dall’unica mostra dedicata a
Leonor Fini (Buenos Aires, 1907 – Parigi, 1996) in Italia,
eppure in passato pare sia stata stimata e adulata da grandi artisti e
intellettuali. Jean Cocteau affermava che col suo realismo irreale era in grado
di riassumere tutta quella corrente di pensiero per cui ancor più vero del vero
è il segno; Jacques Audiberti decantava la ricchezza della sua immaginazione,
mentre
Max Ernst elogiava lo stupefacente campionario di creature fantastiche.
Era nata e cresciuta in un
ambiente fertile, che le permise di venire a contatto, sin dalla giovane età,
con Italo Svevo, Umberto Saba, Bobi Bazlen, ma fu anche molto fortunata negli
incontri, del tutto casuali, che fece in seguito con
De Pisis e
Cartier-Bresson.
La mostra, ricca ed esaustiva nel
suo complesso, anche se a un primo impatto un po’ disorientante, si struttura
su tre piani in cui si susseguono opere pittoriche e grafiche, bozzetti e
illustrazioni, fotografie e videointerviste. Si parte proprio con un omaggio
agli artisti che presentano importanti affinità con la sua opera, per
proseguire subito dopo con la ritrattistica, in cui si notano i lavori a lei
dedicati dagli amici triestini
Nathan e
Sbisà, che formano con
Lolò un terzetto affiatato e complice.
La frequentazione di personalità
di primo piano, unite a una insaziabile curiosità e a un irrefrenabile
egocentrismo, permisero alla Fini di essere sempre nel posto giusto al momento
giusto, consentendole in questo modo di nutrire una già fervida cultura che, suo malgrado, pare non esser stata in grado di
interpretare ma semplicemente di riportare.
Ed è proprio nella
ritrattistica che il suo fare appare più che mai impersonale e nebuloso. Il
tratto è indubbiamente preciso e raffinato, la composizione accademica e
calibrata: l’artista tenta una rilettura del Rinascimento in chiave
contemporanea, stagliando i soggetti su paesaggi sfumati o affiancandoli a vasi
di fiori, a simboleggiare la caducità dell’esistenza. Altre volte è la
dimensione metafisica ad avere il sopravvento e forti sono poi le influenze di
Modigliani o
Picasso (
Tre faunesse,
La Golosa,
Le amiche, del 1932), tanto che
la sua, più che una ricerca, si presenta come un puro esercizio di stile.
Colpisce invece lo
sguardo e la caratterizzazione psicologica che riesce a infondere agli
autoritratti (
La guardiana delle fonti e
Donna con grande cappello, 1967). È a partire
da quegli anni che la sua pittura appare più matura e il suo modo di procedere
più personale. A prevalere è sempre la figura femminile, raffigurata sotto le
sembianze di lamia, sfinge, gatta, bagnante, mentre la maschera e l’abito
divengono, come nella vita, gusci dentro i quali proteggersi dalle paure e
dalla fragilità.
Si esce un po’
frastornati, con la sensazione che a Leonor Fini debbano essere riconosciute
più le sue qualità performative che quelle pittoriche. Il suo essersi
presentata come
tableau vivant anticipa, probabilmente, certa arte
comportamentale, da
Ontani a
Orlan.