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Fino al 2.VI.2001 Moloch-Andrea Chiesi Trieste, Lipanjepuntin
friuli v. g.
Durante questa primavera, nella nota galleria d’arte contemporanea triestina, si tiene la personale di Andrea Chiesi. Il trentacinquenne artista modenese ha risposto ad alcune domande che Exibart ha voluto porgli...
di redazione
Che mostra è quella che presenti a Trieste? Che tipo di lavori proponi?
La mostra che ho allestito a Trieste presso la galleria Lipanjepuntin è intitolata Moloch e raccoglie vari lavori realizzati negli ultimi mesi. Ci sono le mie grandi gru, gli interni abbandonati e una serie di lavori dedicati alla città, come tante istantanee, nelle quali il porto vecchio, S. Sabba, l’Arsenale, le aree industriali diventano luoghi silenziosi e misteriosi.
Moloch, divinità fenicia a cui venivano offerti sacrifici umani, oggi è il simbolo dello stato tiranno e oppressore. Già in “Metropolis” del 1929 Fritz Lang identificava la fabbrica – città con Moloch, divoratore di uomini – schiavi. Intitolare così la mostra e leggere le fabbriche abbandonate, gli impianti industriali, le enormi gru come i Moloch della nostra epoca dà un taglio senza dubbio inquietante e disturbante al mio lavoro. I quadri sono invasi di luce ma l’anima resta dark.
Quali sono state le esposizioni alle quali hai partecipato negli ultimi mesi?
A fine 2000 ho allestito una personale da Maurizio Corraini a Mantova e ho esposto la mia produzione decennale di taccuini e libri d’artista presso la biblioteca Luigi Poletti di Modena. Nel 2001 ho partecipato alle fiere d’arte contemporanea Arte Fiera di Bologna e Arco di Madrid con la galleria Lipanjepuntin. Ho partecipato alla collettiva “8 artisti, 8 critici, 8 stanze” presso Villa delle Rose, Galleria d’Arte Moderna di Bologna, e alla collettiva “S.A.A.” presso la galleria Giancarla Zanutti di Milano.
I mondi che dipingi nei tuoi dipinti sono reali o immaginari? Le protagoniste di questi mondi sono le gru, Queste imponenti strutture metalliche sono un elemento positivo e ottimista o si tratta al contrario di metafore della desolazione e dell’abbandono?
In verità le città che dipingo non sono immaginarie, ma luoghi che visito realmente. Le gru le ho chiamate G.R.U. ossia Grande Rumore Universale, citazione di una composizione del gruppo di musica sperimentale Officine Schwartz . Il brano, musica di Osvaldo Arioldi e testo di Cecilia Comuzio, è pubblicato nell’ EP “Carica!” del 1990, del quale ho realizzato la copertina e al cui interno si trova una delle prime gru che ho disegnato. Il testo, a sua volta ispirato al racconto “Il linguaggio segreto delle gru” di David Leavitt, parla di un bambino che vedendo una gru in azione si innamora di lei, si isola dal mondo e inizia a relazionarsi soltanto con essa. La musica è intensa e struggente. Sono partito da qui.
Nei miei quadri le gru assumono le sembianze di creature metalliche, animali meccanici minacciosi e incombenti che tendono all’essenzialità geometrica. Grande opera dell’ingegno dell’uomo le gru sfidano il cielo ambiziose, si stagliano altissime e imponenti, eppure, per loro stessa natura, si reggono su equilibri precari, sono fragili e insicure. Non possono superare i limiti strutturali imposti dalla progettazione, compiono movimenti lenti, ridotti e preordinati, non possono sollevare più del carico stabilito, pena il collasso.
Le gru non sono ne’ ottimiste ne’ pessimiste ma metafora della natura dell’uomo, dei desideri di potenza e dell’ambizione del cielo, ne rivelano la condizione eternamente precaria e l’equilibrio labile del suo essere, il desiderio profondo di conoscere e mutare la realtà, ma anche la limitatezza della conoscenza e la natura ambigua della tecnica. Nel rappresentare le gru enfatizzo, attraverso l’inquadratura, il loro (il nostro) equilibrio precario, le trasformo in strutture vacillanti che oppongono un’incerta resistenza allo scorrere del tempo e al logorarsi della materia e dell’energia. Tuttavia resistono, anche se per un breve intervallo, e a volte attraversano con i loro bracci meccanici lo spazio del quadro unendo punti lontani tra loro, inconciliabili, creando un ponte sul nulla, una fragile traccia ordinata nello spazio caotico che ci circonda.
Il tuo lavoro si è spesso intrecciato con esperienze musicali, sia tramite riferimenti testuali e iconografici, che attraverso collaborazioni specifiche (ad esempio la realizzazione di copertine di dischi). Che ruolo ha la musica, e in particolare la musica industriale, nella genesi delle tue opere?
La musica alternativa e il contesto culturale nato dal punk, poi sviluppatosi in altri generi come il dark, l’industriale, l’hard core, sono stati la mia accademia. Il punk, e ciò che ne è derivato, ha rappresentato un’attitudine, una forma di resistenza, un modo per sopravvivere alla menzogna del mondo. Io ho sempre disegnato, ma mi sono avvicinato all’arte contemporanea relativamente tardi. Gli anni formativi li ho passati frequentando il mondo underground, ascoltando gruppi come Angry Samoa, Black Flag, Dead Kennedys, Germs, Adolescents, Agnostic Front, Minor Treath, Psychich TV, Einsturzende Neubauten, Laibach, Coil, Death in June, Virgin Prunes, Christian Death… In uno dei primi centri sociali, il Tuwat di Carpi, citato dai CCCP fedeli alla linea in “Emilia paranoica”, ho fatto, giovanissimo, la mia prima mostra di disegni. Esperienza che ho ripetuto molto più avanti, nel ’96, nello spazio occupato S.Q.O.T.T. di Milano. Tutto questo mi ha portato a collaborare con varie situazioni e gruppi musicali (Ataraxia, Disciplinatha, Officine Schwartz), ad ideare 20 copertine per la collana di CD “Taccuini” e a realizzare l’opera multimediale “L’Apocalisse di Giovanni” insieme a Giovanni Ferretti e ai C.S.I. Oggi continuo ad ascoltare musica, leggo fanzines e vado ai concerti notturni – è inevitabile circondarsi di ciò che si ama – ma questo non influenza in modo diretto la mia pittura, crea piuttosto il “rumore di fondo” delle opere.
Si può considerare il tuo lavoro come una riflessione sull’ambiente urbano? Consideri, seppur diversa, parallela alla tua l’esperienza di artisti come Botto&Bruno, Paolo Leonardo, Luca Pancrazzi che lavorano su questo concetto?
Stimo il lavoro degli artisti citati e condivido il parallelismo – con tutte le differenze del caso – con loro. Rispetto alla prima domanda posso dire che il mio lavoro esplora il tessuto urbano, in particolare le sacche marginali di esso; tuttavia con le mie opere non voglio compiere solamente un’azione di denuncia del degrado di vaste aree periferiche e delle condizioni spesso alienanti di chi è costretto viverci, ma anche suggerire uno spunto di riflessione sulla nostra storia e cultura e più in generale sul nostro modo di esistere e di intervenire sulla realtà circostante. Credo che lo sviluppo del tessuto urbano e l’evolversi del territorio rappresentino materialmente la nostra storia economica e sociale. Per questo il mio lavoro, mai rassicurante, ha una forte componente di denuncia e procede per fasi progressive. Il primo passo consiste nell’individuazione, all’interno del tessuto urbano, delle aree industriali dismesse; poi entro, spesso abusivamente, in questi luoghi, isolati come sacche abbandonate e dimenticate nella città e al loro interno incontro clandestini, spacciatori, vigilantes, balordi, squatters, curiosi o nessuno. Ricerco i “soggetti”, scelgo la prospettiva, l’inquadratura giusta e scatto la fotografia, sia per esigenze di velocità che per documentazione. Infine in studio avviene l’ultima fase, quella pittorica. Rielaboro il soggetto, dipingendolo cambio i colori, le ombre, viro tutto verso una rigida monocromia, pongo le gru di fronte a un fondo bianco assoluto, un cielo inesistente e trasformo gli interni abbandonati in corridoi enigmatici.
Si tratta di luoghi con una storia e un’identità, particolare e unica, anche se simili tra loro. Sono partito naturalmente dalla mia città con le ex fonderie e le ex acciaierie di Modena. Soprattutto le ex fonderie hanno un grande spessore per la storia cittadina: qui il 9 gennaio 1950, durante una manifestazione, la polizia sparò sui dimostranti uccidendo sei operai, Renzo Bersani, Angelo Appiani, Roberto Rovatti, Ennio Gargnani, Arturo Chiappelli, Arturo Malagoli. Successivamente ho esplorato le aree abbandonate di Torino, le ex acciaierie Falck a Sesto San Giovanni, la Bovisa a Milano, il porto abbandonato di Trieste, in Spagna Bilbao e Barcellona. Ho esplorato anche vari porti, tra cui Livorno, La Spezia, Genova; la metafora del porto come luogo chiuso e contemporaneamente aperto al transito di persone e merci è un altro tema che mi affascina e penso che approfondirò. Attualmente mi sto interessando anche di architettura fascista. E’ una ricerca praticamente senza fine che accompagna e spesso condiziona tutti i miei viaggi e i miei spostamenti. Quando mi muovo lo faccio tenendo conto delle aree da esplorare.
Ho scoperto due cose: la periferia è un essere multiforme, apparentemente uguale in ogni città eppure sostanzialmente diverso in ognuna per colori, luci, atmosfere, rumori, odori, un essere caratterizzato da elementi che si ripetono identici e standardizzati e da altri casuali, unici; spesso solo le periferie, nel tessuto urbano, raccontano la nostra storia attuale, i contrasti, i cambiamenti, le idee, i vincitori e i vinti.
Come si muove l’arte giovane e l’arte contemporanea in Italia secondo Andrea Chiesi?
L’arte giovane è un termine troppo abusato, a volte perfino fastidioso. Si è fatta molta speculazione sui giovani artisti. I politici per demagogia organizzano mostre spesso inutili che giustificano uffici, poltrone e finanziamenti. Nel mondo dell’arte, poi, il giovanilismo è ipocrita perché serve a mandare carne sempre fresca al macello: si hanno giovani artisti sempre nuovi, opere a prezzi irrisori e si cavalca l’onda della novità, o presunta tale, molto comodamente. Può sembrare ovvio, ma il problema non è l’età, ma il lavoro, la qualità.
L’arte contemporanea in Italia riflette, inevitabilmente, la situazione dell’Italia stessa nel panorama economico e politico mondiale. Ci piazziamo in una posizione intermedia. Oggi gli artisti viaggiano molto, è più facile essere aggiornati e informati su quanto accade a livello internazionale e in Italia continuano a crescere artisti di ottimo spessore. Si paga il prezzo di una certa marginalità e di un certo provincialismo. I difetti sono noti: pochi investimenti, pochi musei, scarse acquisizioni, manca una defiscalizzazione che incentivi il collezionismo e in generale poco interesse per l’arte e la cultura contemporanee.
Cosa farai nei prossimi mesi? Puoi anticiparci alcuni tuoi progetti?
Il 18 luglio inaugura la collettiva, a cui sono stato invitato, intitolata “Pay Attention” a cura di Luca Beatrice, Fernando Castro Flores e Cristiana Collu presso il museo d’Arte Contemporanea MAN di Nuoro. Continuerà la collaborazione con la galleria Lipanjepuntin che da questa personale diventa la mia galleria di riferimento: dopo Bologna e Madrid parteciperemo alle fiere d’arte contemporanea di Milano e dopo l’estate Torino e Colonia.
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(Ha collaborato Valentina Tanni)
“Moloch”, Lipanjepuntin, Via Diaz, 4 tel 040308 099 fax 040308 287. Dal 20 aprile al 2 giugno. lipuarte@tin.it, www.lipanjepuntin.com . Per orari telefonare in galleria.
[exibart]