La prima cosa che si nota nel nuovo Spac è il cambio di nome, nascosto però dall’acronimo che dà il nome al centro. Spac (Spazio Pubblico per l’Arte Contemporanea) nasconde ora nella “P” l’iniziale di
pubblico, forse per segnalare il cambio di direzione dopo la gestione affidata nel 2006 a Enzo Cannaviello, o più plausibilmente per la volontà di rendere accessibile a un pubblico più vasto le meraviglie dell’enorme carrozzone che chiamiamo
arte contemporanea. Il cambio di rotta è segnato anche da una visione curatoriale del fare arte che privilegia una lettura dei fenomeni di tipo sociale e politica,
engagé, che metta in rilievo l’aspetto dei contenuti “
rispetto alla notorietà del prodotto artistico”. Corollario a questa volontà è l’impegno a schierarsi, anche politicamente, ed è facile capire da quale parte sin dalla complessa installazione in giardino che accoglie i visitatori, realizzata con stendini da biancheria su cui sventola il colore rosso.
Il titolo della mostra deriva da una canzone di Alice,
Anche se tardi abbiamo fatto bene ad uscire, e si sviluppa a partire proprio dalla volontà di raccogliere il lavoro di artisti attorno al tema del confronto con il peso delle convenzioni, e -come scrive il curatore citando Pasolini- con “
la scandalosa forza rivoluzionaria del passato”. E si avverte forte la cesura rispetto alla passata attività (caratterizzata dalla presenza essenzialmente della pittura), con molte opere di natura concettuale. Gli artisti sono numerosi e con un numero interessante di opere: la sensazione però è quella di una concentrazione visiva troppo elevata.
Marco Fedele di Catrano realizza un bell’intervento nell’ingresso, sistemando un proiettore contro il soffitto con un tubo Innocenti e proiettando sul muro il video di un nido di uccelli: la posizione e l’altezza, suggeriscono piena continuità tra l’allestimento e il contenuto del video stesso. Similmente, il video di
Raffaele Di Vaia mostra la maniglia di una porta chiusa mentre qualcuno cerca di aprirla, ma la ripresa è stata fatta girando la camera di novanta gradi e il video è stato allestito con un televisore anch’esso girato nella stessa angolazione, riportando all’originale l’immagine.
Roberto Mascella ha allestito invece un cubo di marmo galleggiante in un enorme contenitore cilindrico pieno d’acqua: impossibile non toccare per accertarsi della natura e della consistenza del materiale.
Interessante la riflessione di
Nikola Uzunovski che, in
The Right Way, cartello che indica due direzioni esattamente opposte, propone in modo icastico uno degli aspetti più intriganti della teoria scientifica del caos. Sono una chicca le foto di
Robert Pettena in cui viene smontato o fatto slittare il concetto che esse stesse dichiarano nel titolo, come capita in
Check Point, dove tre fantomatiche guardie di frontiera pattugliano una roulotte mezza sventrata.
La sala successiva ha al suo centro la lunga
Scultura sociale di
Giovanni Morbin, una sorta di asta formata da moduli semisferici componibili che, uno per uno, sono stati collocati, venduti ai collezionisti o, come in questo caso, sistemati anche come piedini di una sedia della villa. Spiccano le enormi fotografie bianco e nero di
Fabio Sandri in cui è stata impressionata la carta direttamente proiettando la luce sugli oggetti, una sorta di
camera obscura a dimensione ambiente, e la sintetica pittura di ispirazione orientale di
Matteo Fato, che ritrae dei cani e presenta anche due video realizzati a partire da propri disegni.