Nel nostro mondo che ha fatto del consumismo, anche estetico, la religio dominante tra gli uomini, la personalità di Enzo Mari (1932, Novara) spicca in modo netto. Designer morale e scrupoloso filosofo del design, si distingue per un lavoro straordinariamente etico, all’insegna di un rigore deontologico scrupoloso, maniacale, monacale nel valutare e soppesare forma e funzione. Infatti, come dichiara nell’interessante intervista che costituisce il preambolo della mostra, “una forma è giusta se è (cioè non ha alternative), non è giusta se sembra (le alternative sono infinite)”. Il nucleo della sua attività è il progetto, quel processo intellettuale, ma con evidenti ricadute sociali, che consiste “nel decantare, nell’eliminare tutto ciò che è inutile o falso”, essendo la forma raggiunta “l’unica materializzazione possibile dei significati etici”.
La mostra, che nel titolo ricorre evidentemente a Ceci n’est pas une pipe di magrittiana memoria, sottolinea proprio questo aspetto: l’approccio etico-filosofico del designer. E non lascia spazio ad alcuna facile spettacolarità. È stata infatti posta attenzione anzitutto alle teorie e ai princìpi cari al designer, raccogliendo, oltre alla già citata intervista, la copia fotostatica di molti dei suoi schizzi ed appunti, mentre dal soffitto pendono degli striscioni che condensano i contenuti più rilevanti del suo pensiero. In questo modo, forse un po’ didascalico, ma coerentemente in linea con la personalità di Mari, è possibile conoscere il nucleo creativo e ancor di più quell’approccio morale di fronte alla realtà che renda la forma come “l’unica materializzazione possibile dei significati etici”.
Ed è per questo che gli oggetti presentati nella seconda sezione della mostra, più che raccontare la vita di Mari, rappresentano degli esempi di qualità formale, dei tentativi riusciti, come scrive nel catalogo Marco Minuz, di “denudare gli oggetti dal loro eccesso di protagonismo”. È il caso del portaoggetti Putrella, realizzato nel 1958 piegando proprio un pezzo di trave d’acciaio, così come il vassoio metallico Arran (1961) dalla forma essenziale e naturale, o la spartana libreria modulare Glifo del 1965, incorniciato dalla quale è ritratto da Gianni Berengo GardinNaturalmente non può mancare lo Scolapasta (1997) e varie sedie, tra cui spicca quella pieghevole (Cinecittà, 2003). E ancora la parte dedicata ai bambini, in cui Il gioco delle favole, resta un oggetto di una disarmante poeticità che riesce ad interessare anche gli adulti, fruitori cui non è destinato. Ma è questa, in fondo, la capacità più sorprendente di Mari. Riuscire a parlare, semplicemente e distintamente, anche alle orecchie dei sordi.
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