Pensare a Trieste vuol dire sentir soffiare, oltre alla bora, il vento del cambiamento che portò, quel 4 novembre di novant’anni fa, la città sotto bandiera italiana. Fino ad allora era stata il porto degli Asburgo, lo sbocco sul mar Adriatico di un impero che, esteso nel cuore pulsante dell’Europa, era confinato tra montagne, pianure e valli. Ma stavolta, invece dei caffè d’inizi Novecento, in cui si respirava un’aria mitteleuropea e si potevano incontrare James Joyce, Italo Svevo e Umberto Saba, la città si materializza nel suo castello, intitolato al patrono san Giusto, e il vento che soffia è quello che spira dai secoli addietro, attraverso le volte e le navate della sua Cattedrale.
Solo suggestione? Forse. Ma recandosi a Trieste per vistare la mostra al Museo Civico – che ha sede appunto nel castello restaurato – non si può non provare una forte emozione e non sentirsi disorientati nel vedere il volto inconsueto di una città che cela molto bene il suo passato dietro le facciate bianche e lucide dei palazzi che, come tante bomboniere
Biedermeier, adornano l’ariosa piazza dell’Unità d’Italia. Ma, un passo indietro, e ci si perde in viuzze strette e tortuose, salite ripide, case ammassate. Eccolo, il volto della Trieste trecentesca, quella del Comune e dei mercanti, delle dispute giudiziarie, della nascita del volgare.
Partiamo da qui perché è da qui che inizia la mostra. Tutta la città è infatti reinterpretata, grazie a percorsi accurati e ben studiati, alla luce di ciò che era visibile architettonicamente e urbanisticamente sette secoli fa: le vie, i palazzi, le chiese. E girarla a piedi, più che una fatica è un piacere intellettuale ed estetico.
Alla fine del percorso si giunge al Castello, dove sono raccolte le testimonianze tangibili di questo viaggio nel tempo. Soprattutto sul piano materiale. Le monete uscite dalla zecca che operò tra XII e XIV secolo ricordano, dietro l’effigie di san Giusto, la vivace vita mercantile della città, che commerciava con Venezia e lungo l’Adriatico, e aveva rapporti con il Patriarcato di Aquileia; i tanti documenti privati – molti atti giudiziari – restituiscono con vivacità e immediatezza il pulsare della vita nelle sue declinazioni meno nobili, dall’omicidio alla bestemmia, dalle lesioni personali all’ingiuria, al furto. E anche i codici degli Statuti cittadini riproducono, nelle loro colorate miniature, il realismo di quella “civiltà del fare” tipica del Nordest. Di tutto questo dà conto anche il catalogo curato da Paolo Cammarosano, specialista nel narrare la storia andando alle fonti.
Su tutto svettava, anche qui, la chiesa cittadina, con la cattedrale edificata nel V secolo sui resti di un edificio pagano e, nel Trecento, elevata al massimo splendore, col suo rosone in pietra bianca, il campanile e le belle testimonianze di scultura gotica. Si vedano le policrome Madonne con Bambino, il
Crocifisso ligneo di
Caterino Moranzone, le belle statue in legno dipinto di san Sergio e san Giusto, ma soprattutto gli affreschi: i colori vivaci e i fondi oro citano Bisanzio e Venezia, ma nella gestualità dei personaggi si ode l’eco del
Giotto padovano.