Millecentocinquantatrè. Sono le miglia marine che coprono la distanza tra Istanbul e Trieste, tra il lembo più ad est del Belpaese e la maggiore città dello stato la cui adesione alla Comunità Europea sta suscitando un vespaio di polemiche. Ma, a differenza della politica, l’arte sembra non dare troppa importanza ai confini: proprio in questi mesi infatti Villa Manin spalanca le porte della residenza dogale ad artisti turchi, con una mostra realizzata con la collaborazione del Centro d’Arte Contemporanea Platform Garanti. E come era successo per Instant Europe, in cui erano stata esplorata la produzione fotografica e video dell’est Europa, i curatori hanno selezionato artisti non ancora noti al grande pubblico, molti dei quali ancora trentenni.
Uno dei temi più sentiti è la politica ed il rapporto con l’autorità, segno evidente delle frizioni ancora in atto nel paese con una democrazia ancora giovane. È il caso di Osman Bozkurt (Istanbul, 1970), che in Marks of democracy/Portraits of the voters fotografa le dita degli elettori segnate con dell’inchiostro per evitare che si presentassero alle urne più di una volta.
Dita e unghie messe in serie (a testimoniare l’uguaglianza dei cittadini) ma che mantengono comunque, seppur attenuate, le identità individuali, per diventare alla fine soggetto estetico. Ahmet Ögüt (Diyabakir, 1981) e Osman Bingöl (Ankara, 1979) inscenano invece il più classico rapporto psicologico tra guardia e ladri, solo che i protagonisti sono un militare e un politico che si scoprono alla fine non essere dissimili e partecipano allo stesso furto di un auto.
La polizia è anche protagonista del video Round Up The Usual Suspect di Hatice Güleryüz (Denzil, 1968), filmata nel giorno della parata
Hussein Chalayan (Cipro, 1970), che ha rappresentato la Turchia all’ultima Biennale veneziana, è autore di Anaesthetics, video che indaga come le convenzioni del vestire siano una forma di violenza sull’individuo, mentre Fikret Atay (Batman, 1976) insiste sull’aspetto ludico. In Rebels of the Dance fa cantare e ballare due bambini curdi, inizialmente timidi, che si trovano casualmente di fronte ad uno sportello bancomat e in GoodYear insegue con le telecamera a mano due ragazzini che giocano con uno pneumatico abbandonato fino a dargli fuoco. I bambini sono anche i protagonisti del toccante This is the Disney World di Esra Ersen (Ankara, 1970): abbandonati dalle famiglie a Istanbul, vivono di espedienti. Con estrema lucidità analizzano e raccontano di fronte la telecamera la propria vita, mentre sniffano degli stracci impregnati di colla per fuggire da una realtà che sembra averli cancellati.
Ne esce l’immagine contrastata di una Turchia in fermento e contraddittoria, carica di aspettative ma che ancora disturbante. Come la stella luminosa proiettata sulle foto di Banu Cennetoglu (Ankara, 1970), voluta dall’artista proprio per infastidire la visione delle opere.
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La mostra a parte pochissime eccezioni è bruttissima
I lavori sono scontati e banali, ennesima rassegna di arte pseudo documentaristica che esprime più la marginalità individuale degli artisti piuttosto che un'analisi approfondita del contesto in cui vivono che è invece rappresentato con mezzi
dilettanteschi e smozzicati senza nessuna valorizzazione di un qualche filtro di intelligenza o comunque di capacità rielaborativa
Qua e là le solite trovatine crude che lasciano il tempo che trovano,tutte senza l'ombra di una raffinatezza o di un senso complesso;
bello il lavoro di Acakçe che con il suo effetto nostalgia oltrepassa la circolarità della realtà virtuale che pratica innestando un autocritica dall'interno dello stesso mezzo (e per fortuna non ci parla della Turchia)
Vallo a dire alla sig.Sarah Cosulich Canarutto!!