Nell’arte così profondamente “umana” di oggi quali tracce sono rimaste del sacro? Poche e confuse, a giudicare dalla mostra di Villa Manin. In
Dio e le merci, sin dal titolo, si percepisce una via troppo stretta attraverso cui guardare al loro rapporto: il mercato non lascia spazio per il sacro, ma lo svuota e lo fraintende. Perché allora rivolgersi ai mercanti del tempio? Forse per avere un facile bersaglio da colpire.
È questo il primo livello della mostra, caratterizzato da sarcasmo e ironia. Icone, simboli religiosi e domande esistenziali sono interpretati alla luce della loro dimensione più esteriore. Dalle spassose buone e cattive notizie di
Nedko Solakov alle dissacranti cartoline di
Dan Perjovschi, fino alla madonnina di Lourdes giallo fluorescente di
Katharina Fritsch, i bersagli sono dogmi e istituzioni, ovvero le sovrastrutture che avvolgono e veicolano il sacro, insieme ai loro prodotti più materiali, come i souvenir religiosi.
Un secondo livello approda più in profondità, raggiungendo il rito. Ma anche qui si mantiene un distacco che rimane mera descrizione, tra analisi sociologica e psicologia di massa. Lo sguardo dell’artista fissa la ritualità, ma ponendo se stesso e lo spettatore al di fuori di essa. Il contrasto fra sguardo esteriore e ritualità raggiunge il suo apice in
The Holy Artwork, che documenta una performance di
Christian Jankowski tenutasi in accordo con una chiesa evangelica, durante la registrazione televisiva di una cerimonia religiosa. Affondando in una dimensione inconsueta ed equivoca, lo spettatore assiste a un tele-predicatore che, sopra il corpo disteso e immobile dell’artista, descrive la performance all’interno del suo sermone, terminando con un ambiguo auspicio di un’unità fra arte, religione e televisione.
Un gruppo più ristretto di opere costituisce invece l’ultimo livello della mostra, quello che più profondamente riesce ad approssimarsi alla dimensione del sacro. Attraverso la finitezza, come accade nella scultura di
Berlinde de Bruyckere, che mostra un ammasso di carne dalle vaghe sembianze umane che sembra sgocciolare da una trave arrugginita. O attraverso le fotografie di
Darren Almond, in cui sublimi paesaggi illuminati dal chiarore della Luna piena sono resi visibili dai lunghissimi tempi di esposizione. Oppure, nel parco della villa, nella spiritualità naïf del canone a due voci di
Susan Philipsz che celebra la luce del Sole in un canto senza tempo.
Nel complesso, una mostra godibile, ma che lascia il rammarico di un’eccessiva facilità e di un concept che, sebbene non ambisse all’esaustività, appare troppo debole per affrontare il rapporto tra il sacro e l’arte contemporanea. Inoltre -anche se costruita in punta di piedi, facendo grande attenzione a non offendere gli animi- c’è un equivoco che pesa nell’atteggiamento che le ha dato forma, nella dichiarata contrapposizione tra un’arte che pone domande e un sacro che offre risposte.
Dimenticando che dubbio, angoscia e timore non sono estranei a un atteggiamento di fede autentico e sono anzi fondamentali nella concezione del sacro. Ma forse, più che una svista, è un segno della nostra epoca, che confonde dogma e fondamentalismo, relativismo e tolleranza, esoterismo e trascendenza.