È portato all’estremo il contrasto volume-vuoto fra le pareti massicce dell’esedra di Villa Manin e i tre lavori proposti per la mostra
Rifrazioni sul tema. Il contrasto è anche fra l’estrema levigatezza delle opere e il non-finito del luogo, una barchessa della villa che ha subìto solo alcune fasi di restauro, ma che è completamente priva di pavimenti e intonaci. E questo stridore non può che giovare alle opere, mettendone in ulteriore rilievo la leggerezza e l’inconsistente materialità. Ma c’è da dire che la collocazione periferica delle mostre degli artisti friulani rispetto il corpo centrale della villa -quasi da “riserva indiana”- resta un problema da risolvere, dato che il centro d’arte funziona da vetrina, tanto più nel caso di giovani artisti che invece, spesso, si trovano relegati in luoghi un po’ troppo
a latere. Come ci è già capitato di dire, la situazione ottimale è probabilmente dentro la villa, a fianco alle opere dei progetti internazionali.
È ricamo -ma che non fa alcun riferimento alla tradizione del lavoro femminile- quello di
Sara Bellinato (San Vito al Tagliamento, 1980), che disegna trame geometriche con il filo nero su tre pannelli di poliestere, creando poligoni l’uno all’altro sovrapposti. Ne nascono figure che ricordano vagamente la scomposizione dei poligoni con cui si costruiscono le immagini nelle ricostruzioni digitali, anche se alla vista sono assolutamente bidimensionali e il senso di profondità è suggerito dal supporto diafano, che sembra sottilissimo alabastro. La luce che filtra suggerisce infatti una lettura oltre la superficie. Lo spessore e la consistenza dei fogli, unita all’intelligente collocazione sospesa a mezz’aria, rendono inoltre equamente possibile la visione nei due sensi
recto e
verso, senza che vi sia alcuna forzatura visiva o slittamento semantico.
Vanessa Chimera (Udine, 1971) ha scelto di lavorare con la luce, ponendo verticalmente una serie di neon su ciascuna delle colonne che reggono le arcate dell’esedra. L’idea sembra a prima vista quella -non troppo originale- dello scorrimento euritmico, del ritmo regolare, della continuità spaziale. Ma ben presto, avvicinandosi ai tubi luminosi, si scorgono discontinuità luminose. I neon sono infatti rivestiti di perline trasparenti e celano dei numeri che fanno riferimento ad alcune delle strade che portano ai confini italiani, a voler evidenziare e superare il limite del confine fisico. E se è calzante l’ossimoro concettuale secondo cui la luce, anziché mostrare, cela porzioni di realtà ai nostri occhi, pare forse troppo forzato il voler sottolineare il senso di confine e di limite, con l’effetto di appesantire un lavoro che ha il suo centro nelle dinamiche percettive.
Alessandra Ghiraldelli (Latisana, 1972) costruisce invece una casa in tessuto bianco (
My home) che assomiglia a una tenda nomade. Non c’è barriera visiva fra interno ed esterno -l’organza è perfettamente trasparente- e nel contempo manca il senso di proprietà e di appartenenza, essendo lo spazio fisico delimitato solo da un velo che filtra appena lo sguardo. La tenda (che conserva l’idea di una scultura trasparente), come le amache che sono collocate innanzi, sono sorrette da fili sottilissimi che rendono impalpabile e vaporosa la volumetria della
casa, rendendo quasi inutile la demarcazione e il confine fra l’abitazione e la realtà circostante. E, in ultima analisi, tra individuo e mondo.
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forse la più brutta mostra che ho visitato quest'anno