È difficile avere una chiara visione interpretativa delle opere di
Emanuela Marassi (Trieste, 1937) presentate al Museo Revoltella, nelle quali sembra negare nei fatti ciò che palesemente afferma. Come scrive Gillo Dorfles in catalogo, si coglie l’incertezza tra “
un inno alla bellezza, o, viceversa, una sottile ironizzazione della stessa”. Il gioco sta proprio qui, nell’affermazione apodittica della bellezza -come quella di una sposa avvolta nei veli- cui fa da contraltare la negazione, per certi aspetti pop o kitsch, di una distesa di rospi che occupano una superficie di pelo rosa. E l’artista, con intelligenza, sa tenersi a debita distanza da entrambe le proposizioni, in completa assenza di giudizio, per lasciar decidere allo spettatore spiazzato. La mostra, infatti, in ultima istanza è una raffinato
cahier des doléances femminile sull’idea di bellezza e sui portati culturali del concetto, che inevitabilmente cade nell’aporia.
Il visitatore è accolto da una lightbox con una sposa in abito nuziale che rappresenta un invito, un inno alla fecondità e, in ultima istanza, al ruolo di madre e generatrice. In un’ulteriore immagine, la
bella donna tende le mani verso lo spettatore per offrire, avvolta nei guanti di seta bianchi, i confetti che testimoniano la compiutezza della festa e del suo ruolo. L’atmosfera è quella della favola, non manca nemmeno l’effetto flou classico nelle foto dei matrimoni, realizzato sovrapponendo a sandwich più pellicole. In una videoinstallazione sulla parete a fianco, però, la magia è presto smontata e la stessa mano, avvolta in un guanto, regge una pistola. Basta un metallico
click per far implodere la favola. All’aria gli ideali e il tronfio sogno di felicità muliebre, e d’altronde i trascorsi femministi di Marassi non potevano certo essere cancellati.
Le opere successive raccontano un approccio che -senza peccare di sessismo, dato che il ricamo è anche attività artistica maschile: si pensi a
Boetti o al primo
Vezzoli– si dimostra assolutamente femminile. Il ricamo decora il tulle nel quale sono scritte, una per una, le virtù cavalleresche, o semplicemente simula un antico poema medioevale o le più moderne scritte a stampa di un giornale. Ma siamo attratti da un foro sottile da cui riverbera una luce rosa e ci affacciamo su una stanza non accessibile, ricoperta di tappeti a pelo lungo, che riflettono tutto intorno quel colore. In un attimo ci rendiamo conto che la stanza è abitata da una colonia di rane o, meglio, visto il tema della
bellezza, di rospi color rosa. L’opera è così pop e cromaticamente ridondante da essere estremamente kitsch o, ironicamente,
per contrarium, bella.
Se la bellezza della seduzione è riproposta dall’artista in un video degli anni ‘70 in cui interpretava uno spogliarello, rendendo lo spettatore un semplice voyeur, una vittima dell’altrui bellezza erotica, la riflessione più icastica è quella che dà il titolo alla mostra:
Beauty è una scritta in metallo riflettente che occupa una parete del museo.
Ci si può specchiare, intravedere, quasi giocare, salvo poi scoprire che lettere sono ricurve (alternativamente concave e convesse) e che deformano la nostra immagine. Che vorremo invece riproposta fedele. Narciso questa volta non cadrà in acqua. Non c’è alcuna bellezza di cui innamorarsi.