Ama giocare sull’illusione e sull’equivoco
Stefano Scheda (Faenza, 1957), che presenta nella galleria triestina gli ultimi esiti di un lavoro giocato essenzialmente sulle dinamiche percettive che egli dà l’impressione di coltivare con il piacere di prendere un po’ per il naso lo spettatore.
Al primo sguardo, infatti, i suoi lavori -siano essi fotografie o video- danno inevitabilmente un senso di precarietà, sostanziato dall’essenzialità degli elementi forniti alla visione. I soggetti sono le facciate di case e palazzi, e l’illusione è quella che siano essenzialmente ruderi o dimore improvvisate, che si reggono sull’unica parete frontale (come quelle che troppo spesso capita di vedere nei reportage da zone di guerra). Poi il rebus lentamente si dipana e ci si rende conto che il senso di provvisorietà è stato creato ad hoc; che non esiste guerra, che quelle facciate non sono nemmeno inediti archi trionfali che celebrano il nulla o quinte di un teatro dell’assurdo.
Niente di tutto questo: sono case assolutamente normali, dimore di campagna e annessi agricoli uguali a molti altri che punteggiano la campagna. Solo che su ciascuna finestra, su ciascuna porta è stato collocato uno specchio. In un attimo l’illusione si smaschera e quei luoghi strani, incomprensibili, diventano intelligibili all’occhio dell’osservatore, cui non resta che analizzare le dinamiche della finzione.
Il principio è quello della trasparenza negata o, se vogliamo, ribaltata. Le zone di passaggio tra il mondo e i luoghi interni (il
Fuoridentro che dà il nome alla serie) agiscono generalmente da filtri, da spazi di transito che permettono interazioni: da fuori si può vedere dentro e viceversa. Scheda invece agisce per assurdo, collocando degli specchi che permettono non la comprensione dell’interno dell’abitazione che sta innanzi allo spettatore, bensì tutto ciò che a lui sta dietro. Il gioco, che è presente anche in pittura sin dal Quattrocento (pensiamo agli
Arnolfini di
Van Eyck), è quello di negare la visione solo frontale a scapito di una rappresentazione che mostri il luogo
verso cui non si guarda.
La fotocamera, così, non registra quello che passa e transita o attende al di là dell’obbiettivo, dell’ottica che ci restituisce una porzione di mondo, ma un ritaglio rubato di quel mondo che vive nascosto dietro di noi. È una sorta di volontario strabismo, che l’artista sembra declinare con l’illusione del teatro, la labilità della performance, e forse molta ironia.