In realtà il termine viaggio racchiude in sé una molteplicità di significati, tanti quanti gli abitanti del nostro pianeta (e forse anche degli altri). Penso esista una grande differenza tra turista e viaggiatore. Senza soffermarmi sul primo – che non riuscirei certo a associare a un Marco Polo o un Cristoforo Colombo – indugio sulla seconda figura.
Per il viaggiatore, a volte, è quasi più importante lo spostamento, la trasferta rispetto alla meta. Ovunque vada, porta sempre con sé qualcosa del luogo precedente. La destinazione è solo una scusa per compiere quel tragitto, per scoprire ciò che separa il punto di partenza dall’arrivo.
Le esperienze passate ritornano, in altre forme, nel nuovo luogo. E la città, paese o metropoli che sia, assorbe qualcosa dal viaggiatore, che lascia inevitabilmente una traccia, seppure minima. Contamina il luogo e da questo è contaminato, perché uno dei significati del viaggio è anche comunicazione, e non può esserci scambio, dialogo senza contaminazioni.
Così la personale di Bernardì Roig alla Lipanjepuntin fino al 31 luglio, è una mostra che porta in sé il segno forte della via percorsa dell’autore. È arrivato nella città mitteleuropea portandosi tutto il bagaglio culturale e emotivo spagnolo. Attraverso la Francia e Italia ha marcato una linea diretta e profonda fino a Trieste.
Ha accettato lo spazio della galleria e lo ha contaminato alla sua maniera; ha creato un dialogo interiore pulsante fra lui e le pareti. Titolo della mostra “Blindness & Insight”: due parole in contrasto eppure in rapporto tra loro. La cecità da un lato, ma dall’altro blindness significa anche ignorante. E è qui, sul doppio senso, che entrano in contrasto l’ignoranza di “blindness” e la profondità di “insight”.
Nelle installazioni esposte si ritrova come leit motif il tema della prigionia del corpo, approfondito in varie direzioni. Domina il tema della cecità, più mentale che fisica, direi, di chi si ostina a non volere vedere la realtà. È il sacrificio di un corpo affinché l’ipocrisia che domina i pensieri venga, per lo meno un po’, scossa.
E allora nella ricerca della soluzione formale, approda alle teste la cui superficie ricorda la pelle umana sottoposta al fuoco, una pelle raggrinzita, quindi. Fuoco che esiste realmente e fa parte della forma e la modifica annerendola di fuliggine nel tempo.
È elemento essenziale alla comprensione dell’aspetto comunicativo dei lavori di Bernardì. Le fiammelle che bruciano, inserite al posto degli occhi, possono avere valenza evocativa della cecità, ma pure si possono associare all’idea che queste persone abbiano visto troppo e siano rimaste accecate dalla visione.
Varie interpretazioni; e più sono, più il lavoro, a mio avviso, ha raggiunto uno dei suoi obiettivi: quello di porre domande cui ogni fruitore trovi una risposta differente. Sono tanto chiari dal punto di vista formale, quanto complessi e intriganti da quello concettuale. La ricerca cromatica è risolta nell’uso di colori neutri: i manichini sono vestiti in completo nero e camicia bianca, le teste in grigio.
I disegni sono a carboncino, che lascia sulla carta un segno color fuliggine, nera come quella che realmente si crea nelle installazioni con le fiamme che escono dagli occhi e bruciano la fronte. E un altro lavoro che espone qui, realizzato per l’occasione, è modellato dalla fiamma: una sedia pieghevole in legno chiaro e dolce che, quasi in solitudine, se ne sta appoggiata al muro. Interviene l’artista che su quella sedia, nella medesima posizione, ne carbonizza letteralmente una parte. Il muro adesso porta impresso in negativo il segno della spalliera di questa sedia. Anche qui le visioni possibili sono tante quante gli occhi che le guardano.
Silvio Saura
[exibart]
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