Nuota come un pesce tra il concettuale, l’optical art e il dada Paolo Toffolutti (Udine, 1962), con una versatilità non comune e qualche stoccata che non risparmia religione e la politica. Con il puntiglio di non assecondare lo spettatore ma di perseguirne a tutti i costi lo spiazzamento.
Due lavori di grandi dimensioni su pvc occupano le pareti della galleria: Omocromo è un quadrato a pois di oltre due metri e mezzo, mentre Iraq, territori occupati è un rettangolo di cinque metri disposto orizzontalmente costituito da un fitto alternarsi di righe bianche e nere. Impossibile non avvertire la frizione tra il dettaglio grafico che si può cogliere da vicino e la trama di righe che via via si infittisce allontanandosi. E così gli occhi, in bilico tra sguardo analitico e sintetico, generano visioni distorte che disorientano e mettono a disagio, costringendo a guardare altrove per rinfrescare la vista. Il senso di invadenza della trama ottica e la confusione che ne esce giustifica forse il titolo che è, in senso lato, politico.
Natività è invece un cubo che ne contiene internamente uno più piccolo, entrambi costituiti da una gabbia di liste metalliche saldate, rivelando da un lato il contenuto ma dall’altro rendendo impossibile ogni interazione con l’esterno. Ma è in Attenti a Dio che Toffolutti gioca con ironia sulla religione e sulla facilità con cui si può passare dal rito della preghiera di fronte al crocefisso ad un’adulazione senza senso. Ed è facile capire da che parte sta, poiché i numerosi crocifissi (alternativamente dritti e rovesciati) compongono una grata simile a quelle che si usa per sbarrare le finestre: l’ambiguità apparente del titolo diventa un chiaro monito laico di cui, nel paese dei padrepii e dei santi subito, si comincia a sentire il bisogno.
Ricorda −forse troppo− Ugo Mulas il negativo in bianco e nero Ilford montato su box di plexiglass In-Esposizione, che mostra tutto ciò che non è possibile fissare su pellicola, il latente dietro ogni registrazione meccanica. Toffolutti fa centro invece con il video Colpire Cento per Educarne Uno, in cui l’artista si filma, con una videocamera fissa collocata di fronte ad un muretto, in una serie di manipolazioni e successive distruzioni di piccoli oggetti (probabilmente quelli che si comprano nei negozi a basso prezzo). Nell’inquadratura fissa si vedono solo le sue braccia e le sue mani, e le fasi in cui gli oggetti vengono scartati, toccati, girati e rigirati finché viene data loro una collocazione ottimale. La tensione che ogni volta viene a crearsi per questi gesti inutili trova sfogo nel gesto della distruzione con un pesante martello, ma senza troppa enfasi, talvolta quasi sovrappensiero, distrattamente. E ogni volta le mani spazzano i cocci che restano come in un rito di purificazione. Con la supponenza annoiata con cui un qualsiasi dio gioca a dadi.
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