Cosa sia la fotografia e come venga considerata in un Paese come il nostro, con troppe contraddizioni in ambito artistico, è una questione ardua. Ed è proprio pensando a questo che i curatori hanno preferito −anziché fornire risposte o esporre facili teoremi− porre domande. O, meglio, servire agli occhi dello spettatore una provocazione. Dolce crisi, come scritto nel saggio introduttivo, è un ossimoro; ossimoro che contrappone “la visione zuccherata e superficiale dell’Italia con la crisi che in questo paese caratterizza l’interpretazione della fotografia”. Ovviamente la crisi dell’interpretazione testimonia in primis la mancanza di critici di sostanza, nonché il lavoro non sempre egregio dei (troppi) curatori e dei galleristi; e non ultimo il provincialismo dei collezionisti. Ma il panorama sembra tutt’altro che desolante, a cominciare dagli artisti. Che come si vede qui (con qualche omissione) ci sono, eccome.
Lorenzo Scotto di Luzio , la cui immagine della vela piratesca è stata intelligentemente utilizzata per la campagna pubblicitaria della mostra, accoglie nella biglietteria con dei claustrofobici autoritratti in giacca e cravatta. Il gesto di liberarsi il collo da una cravatta troppo stretta è in realtà una performance (come nei lavori di Marcello Maloberti ) e qui il mezzo fotografico serve a registrare il fatto.
Ma l’uso della fotografia come supporto accomuna anche Giuseppe Gabellone (che ritrae una vecchia auto integrata in una struttura architettonica), Diego Perrone (di cui in mostra l’evocativa serie Un angolo) e Massimo Grimaldi, che sceglie di far scorrere sul monitor di un computer le immagini trovate da Google dopo una ricerca delle parole landmines (mine antiuomo) e Valmara (uno dei modelli più temuti), realizzando un’installazione visiva che fa riflettere non solo sui lampanti contenuti sociali, ma anche sul modo di reperire le immagini.
Più prettamente fotografici i lavori di Walter Niedermayr che, nei suoi dittici di grandi dimensioni, sceglie invece un’accattivante poetica del disorientamento spaziale: nelle foto delle montagne i particolari (architetture, bestiame…) sembrano far smarrire lo sguardo e riescono ad ingenerare nello spettatore un senso di confusione visiva di notevole effetto. Anche Olivo Barbieri riesce a spiazzare l’osservatore ritraendo panorami di edifici e città che assomigliano incredibilmente a plastici, riducendo ad inutile grandezza la magniloquenza delle strutture reali. Parlano invece del reale Vincenzo Castella e Gabriele Basilico : il primo mostra, dall’alto dei tetti, le intersezioni tra le mille linee di forza delle città, mentre il secondo fa parlare, con serie di provini da banco ottico a contatto, la Beirut bombardata ed in bilico tra guerra e volontà di rinascita, evitando intelligentemente di riproporre i noti ingrandimenti sulla città libanese, visti sin troppe volte.
Massimo Vitali ritrae senza alcun compiacimento le masse sulle spiagge, ma il vero colpo lo fa Armin Linke che organizza le sue immagini in libri che possono essere sfogliati dal pubblico, con guanti di cotone, facendosi letteralmente prendere per mano dall’inconsueta narrazione.
Peccato però che in una mostra stimolante ci sia qualche assenza di grido, come Claudio Abbate o il giovane Francesco Jodice. Di sicuro avrebbero reso più zuccherosa la già dolce crisi…
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