Potenza di una lacerazione. Quella di un titolo evocante cori angelici impennati sotto cupole affrescate e trappisti ingobbiti nella penombra dei chiostri, minacce millenaristiche e chimere di beatitudine. La rassegnazione all’ineluttabile caducità terrena, squarciata dall’abbacinante respiro di
quella parola:
gloria. Ben poco di celeste, però, c’è in questa personale di
Laura Zicari (Roma, 1946; vive a Trieste), che dalle nuvole dell’empireo sprofonda nel backstage simoniaco della Grande Babilonia papista, e ripiega su se stessa esercitandosi terapeuticamente (siamo o non siamo nella patria di Zeno Cosini?) in opere realizzate su carta da pacchi, riducibili al formato tascabile e con cornici applicabili tramite clip e bottoncini.
“
Pittura sartoriale”, la definisce il curatore, pittura prêt-à-porter, da condurre gelosamente a passeggio prima di
scartarla, stropicciata e, si direbbe, mai abbastanza odiata, impreziosita con infantile gusto bricoleur da merletti, bigiotteria e abiti cuciti personalmente.
Combine drawings più che
combine paintings, poiché il colore è accessorio rispetto agli assalti di un segno rotondo, affinato nel mestiere di disegnatrice chirurgica presso la facoltà di medicina dell’Università di Trieste.
Eppure, non sono particolari anatomici le cinque coppie di mani all’ingresso, ma ritratti
psicologici di eminenze che s’indovinano, durante il conclave, torcere o posare in grembo gli arti, ricongiunti in pendant alle facce nei cinque
Medaglioni esposti nello spazio sottostante.
Scontato il richiamo al barocco, di fronte a cornici dorate e intagliate. Automatico davanti al coup de théâtre abilmente piazzato all’entrata: un trono fastoso (provocatoriamente di spalle), un cero, un turibolo e quella berretta cardinalizia che segna come un leitmotiv un percorso non immune da fragilità e ridondanze. Pleonastica, infatti, è la parola scritta nella semplice e chiara economia dei disegni, talvolta eccessiva la compattezza degli sfondi, come il collage della Cappella Sistina sul quale, in prospettiva rovesciata, incede il gregge dei porporati, spiati -ma non denunciati- negli eccitanti penetrali della fantapolitica ecclesiastica, non senza quella vena ironica che, come una folata di vento, solleva piviali e pianete, come in un carosello felliniano o in una foto di
Giacomelli.
Centrale, in questa dissacrante cripta pop, il ghignante
Trionfo della Morte. Sciccosa Signora in vesti dorate, la quale, su fondale blu Angiò griffato Vuitton, parafrasando Joseph Roth, “
incrocia le sue dita ossute” sui cardinali-manichini appesi per le grucce, dai volti caricaturali (riconoscibili per qualche vaticanista), arcimboldiani, carnascialeschi, ridotti a fantocci dai grossi nasi di cartapesta e dalle labbra tumide, incassati tra gli accesi colori di mozzette e tricorni. Con un sapore grottesco di Mitteleuropa. Del resto, siamo a Trieste.