Quando il segno si fa scrittura giace per sempre, irrigidito nella sua forma, e rischia di tramutarsi in una formale formalità. Quando il segno si fa immagine approda all’illusorio, è immagine come immaginifico, visione dell’invisibile. Quando scrittura e immagine ri-creano insieme momenti di inquietante quotidianità –descritta, tradotta, rappresentata, sognata, immaginata– allora siamo all’interno di un archivio dedicato alla nuova scrittura.
Alfabeti Contemporanei mette in mostra la straordinaria raccolta, donata al Museion di Bolzano, che il collezionista Paolo Della Grazia ha messo insieme tra gli anni ’60 e ’80: una sessantina di opere che esplorano il mélange –o forse dovremmo dire le “
liaisons dangereuses”– tra immagine e scrittura.
Costume e spettacolo, anni del boom economico. A partire dal secondo dopoguerra si affaccia una realtà composita che rende possibile varcare la soglia della tradizione e sperimentare: dalle ricerche verbo-visuali degli anni ‘50 e ‘60 come la poesia visiva e concreta, fino all’arte concettuale e alla pop art.
Franco Vaccari insiste sull’impossibilità di descrivere la realtà se non attraverso un uso diversificato del linguaggio, grazie alla commistione, al sincretismo di parola e immagine. Ma gli artisti in mostra sono innumerevoli, fra i più importanti del panorama contemporaneo italiano e internazionale:
Alighiero Boetti,
Piero Manzoni,
Gastone Novelli,
Giulio Paolini,
Emilio Tadini,
Joseph Beuys,
John Cage,
Daniel Spoerri,
Cy Twombly,
Hermann Nitsch,
Andy Warhol.
Ma come si danno insieme i due segni, l’immagine e la parola? La mostra presenta due diverse combinazioni. Il percorso espositivo muove dal testo che si fa traccia, che si svincola dalla convenzione linguistica per divenire segno, e approda alla traccia di vita, all’oggetto apparentemente casuale che assume valore significante. Fra questi due poli si sviluppa un percorso scandito in sezioni, che suddividono le opere secondo criteri tematici. Lettere e parole non obbediscono più alla logica del linguaggio, si deformano, si colorano, invadono il foglio, trascurano di esprimere un significato compiuto per divenire strumenti di libertà. Singolare la macchina da scrivere dorata di
Jean François Bory: sui suoi martelletti si incrociano due pistole, soldatini giocattolo scalano i tasti, dal rullo scorre un foglio con caratteri di diverse dimensioni e
font tipografico variamente disposti. Lo strumento perde il suo carattere meramente funzionale –ma anche il suo potere coercitivo, dal momento che in condizioni normali impone allo scrittore la formalizzazione del pensiero in una rigida disposizione del testo– per divenire un’estensione della fantasia. Il carattere ironico che contraddistingue questi lavori è il denominatore comune di una sezione che raccoglie anche opere di Vaccari e
Isgrò. A concludere, le opere formate da oggetti a prima vista insignificanti, immagini anodine, banali annotazioni. È di Boetti un collage che comprende ritagli di giornale, schizzi dell’artista, buste indirizzate e affrancate; di Manzoni un foglio con una successione di impronte digitali; di
Ben Vautier una nota che registra laconicamente il suo malumore; di
Christian Boltanski una bacheca in cui sono raccolti piccoli oggetti di forma indefinita, come fossero i preziosi ritrovamenti di uno scavo archeologico. Privi di importanza materiale, perché la parola si fa immagine e l’immagine si fa parola.
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