“Chi gioca e manipola liberamente la forma giunge prima o poi a cambiarne il contenuto”. Si potrebbe condensare in queste parole dello scrittore francese Raymond Queneau l’approccio alla fotografia di Andrea Galvani (Verona, 1973). La volontà di spiazzare l’osservatore è perseguita con puntiglio, ricorrendo all’inserimento di oggetti estranei al contesto. Ma anche tramite l’uso degli specchi, che mostrano pezzi di realtà che si trovano dietro o a lato dell’obiettivo. Così la testa del cavallo bianco di La morte di un’immagine #5 viene vestita da una nuvola di algidi palloncini, mentre in La morte di un’immagine #2 la gola di una montagna è punteggiata da misteriose sfere nere, come se un metafisico morbillo attanagliasse la terra.
Molte delle immagini comunicano un senso di sospensione che va ben oltre l’asciutta orografia dei luoghi e il piatto srotolarsi della pianura coltivata (come in Il muro del suono #6, in cui tra i campi scopriamo, grazie ad uno specchio riflettente, una strada con degli agricoltori). Si intuisce invece una ricerca sul senso primo dell’immagine, a prescindere dallo scatto e dalle coordinate spazio-temporali, messe in discussione dalla volontà di riassumere in un unico punto di vista due realtà confinanti ma differenti. C’è quindi uno sdoppiamento, uno slittamento verso l’a latere. Come capita ad esempio nella serie Decostruzione di una montagna, dove gli specchi inseriti tra le rocce mostrano porzioni di territorio che stanno al di qua della celebre siepe che il guardo esclude.
La conseguente Decostruzione dell’orografia è poi proposta graficamente: il profilo delle montagne viene infatti riprodotto scrupolosamente, evidenziando l’andamento delle isoipse, con un paio di lavori a china bianca su sfondo nero. Ma forse manca qui, e anche nel video Hunting bears, la forza dirompente dell’analisi deontologica e lo spiazzamento portato alle massime conseguenze. Come avviene invece in La supremazia, in cui un paggio abita un non-luogo, vestito con abiti storicamente incongruenti.
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daniele capra
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