Due speaker, un mixer, un amplificatore, un lettore cd e un groviglio indistinto di cavi diffondono infiltrazioni sonore che si espandono silenti nell’organismo umano, tracciando nuovi ritmi e provocando improvvisi sensi di nausea e astenia. Alla parete, due “grafici-spartito”, dalle linee appena percepibili, indicano gli spostamenti dei ghiacciai alpini e dei poli terrestri. È
20 kHz, l’installazione realizzata da
Alberto Tadiello (Montecchio Maggiore, Vicenza, 1983; vive a Venezia) allo Studio Tommaseo.
Un “polmone artificiale” che, attraverso un respiro fievole ma continuo, emette 23 tracce sonore che, come il titolo stesso suggerisce, si collocano in quella soglia al limite dell’udibilità per l’orecchio umano. Una soglia percepibile solamente mediante processi di amplificazione che operano a livello tecnico e mentale. È qui che il suono si fa tattile, vibrazione emotiva che plasma l’interiorità ogni volta in modo diverso, divenendo scultura intima e personale.
L’intento dell’artista veneto pare non essere quello di ridefinire un ambiente, piuttosto far sentire un corpo anestetizzato, percuotendolo senza toccarlo. La diffusione delle frequenze nello spazio fisico, infatti, non è quasi mai diretta e invasiva, non investe con ondate violente e assordanti, ma accarezza con lievi folate di vento e stabilisce un contatto via etere fra l’anima della natura e la nostra, fra il suono della montagna e i nostri sussulti interiori, instaurando un dialogo profondo, nell’apparente silenzio esterno.
Un silenzio che si fa metafora non solo dell’impercettibile processualità fenomenica in cui lo spettatore viene virtualmente trasportato, ma anche di una persistente sordità che gli è propria.
Memore del primo modello satellitare giapponese, ideato nel 1990 da Hiroshi Yokoi, Tadiello crea una sorta di stazione radio dalle “frequenze” però più deboli rispetto alle precedenti installazioni. Meno secca e incisiva,
20 kHz si dimostra a tratti addirittura ridondante, dando l’impressione di voler andare a colmare un vuoto spaziale più che un vuoto sensoriale. Nonostante la spiccata sensibilità dell’artista e l’innegabile cura impiegata nella realizzazione, permane la sensazione che qualcosa non si sia perfettamente integrato.
Il risultato è un intervento che poco aggiunge al suo percorso e alle nostre sempre maggiori aspettative. Un lavoro che sembra reiterare se stesso, senza alcuna spinta eversiva. Ma probabilmente si tratta solo di una breve pausa, in attesa di una nuova e impervia scalata.
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Sono daccordo con le coclusioni del pezzo di Eva Comuzzi, inizialmente ha certato di dare all’istallazione un’inpalcatura che oggettivamente non esiste.
Considerato che il lavoro di Tadiello funziona grazie alla massa critica che lo sostiene e non per la sostanza che lo determina, ’artista è da lodare perchè ha capito quello che adesso viene aprezzato dal sistema.
Quando finirà la grana messa da parte con i vari premi, il mercato le chiederà non più fischi ma fiaschi.
Se per adesso le va bene così e la Sandretto e in Via Varini & co lo sostengono, che male c’è?
Lui fa il suo lavoro, quindi Bravo!