Si mette nei panni del viaggiatore
da Grand Tour
Marco Petrus (Rimini, 1960; vive a Milano), che sbarca a Trieste –
tappa di un viaggio che lo ha portato in altre città della Mitteleuropa –
armato non più di taccuino su cui imprimere appunti e disegni, bensì della più
moderna e immediata macchina fotografica.
L’itinerario è stato un pretesto
per l’arte, e l’architettura è stata la necessaria l’ispirazione. Usando gli
scatti come se fossero un disegno preparatorio, Petrus ha infatti elaborato
successivamente le linee architettoniche dei palazzi, esaurendole poi di colori
densi e piatti. L’immagine consegnata allo spettatore non lascia spazio alla
poesia dell’immaginazione: su sfondi azzurri di cieli tersi, o di rosa
tramonto, o di grigi notturni, s’innalzano gigantesche le rigide rette che
delineano i contorni di finestre, balconi, lesene, bugnati.
L’elemento architettonico si
liscia sulla tela e, nonostante le ombre e le profondità, l’anima dello stile
descritto dal pittore rimane trattenuto nelle sue facciate originali e non si
trasmette attraverso il pennello. L’essenzialità e la sintesi, che non si
traducono però in astrazione, impongono al soggetto un distacco che
probabilmente sta nell’intento dell’opera, ma che infine comunica sensazioni
d’indifferenza e freddezza. Solo e soltanto il palazzo è protagonista, non la
pittura, non l’interpretazione, non la vita né il passato.
L’impressione di una città morta,
svuotata, inesistente: questa sembra essere la Trieste rappresentata, senza
ricordi e senza segreti, linda e plastificata. La rumorosa cromia delle tele,
luccicante e variegata, contrasta con una silenziosissima presenza di vuoto. La
spoglia funzionalità strutturale del razionalismo, stile prescelto
dall’artista, è posta sullo stesso piano dell’elegante grazia neoclassica o
degli eclettici dettagli decorativi.
Le architetture di Vienna, Praga,
Budapest, poste a introduzione della mostra, sottolineano la volontà di
collocare Trieste in un contesto più ampio, evidenziandone il carattere di
crocevia culturale. Punto di vista carissimo alla città, sempre molto
stimolante e certamente aperto a letture davvero contemporanee, ma che allo
stesso tempo, se non giustificato ampiamente e riletto in maniera attuale,
rischia di diventare una semplice banalità, ripetuta infinitamente.
Disposte su grandi pannelli
separati, le tele sono esaltate dalla tinta rossa del supporto, che evidenzia i
colori brillanti dei palazzi dipinti, ottenendo così una piacevole visione
d’insieme, giocosa e vivace, che riesce a far concentrare tutta la mostra in un
unico sguardo, sfruttando al massimo il grande spazio dell’ex pescheria, ora
Salone degli Incanti.
Il curatore, Luca Beatrice, e il
suo artista avranno certo deliziato gli occhi dei triestini, che, ormai sazi
delle innumerevoli pubblicazioni sull’architettura neoclassica della città,
possono godersi una nuova antologia della loro amata Trieste. Però, forse, è
tutto qui.