La mostra “Zerocalcare. Dopo il botto” alla Fabbrica del Vapore di Milano, visitabile fino al 23 aprile, mette a confronto il pubblico con uno Zerocalcare che, a dieci anni dall’uscita del primo libro, La profezia dell’Armadillo, si conferma autore complesso e denso di sfumature.
Nel momento di maggiore successo della sua carriera, Michele Rech coglie l’occasione per guardarsi alle spalle e riflettere sulla strada percorsa. L’intento autoanalitico è palese sin dalla prima stanza, le cui pareti presentano al visitatore una densissima cronologia che, dall’anno duemila, ripercorre passo passo la vita del fumettista. Partendo dagli inizi “antagonisti” della sottocultura e dei centri sociali romani, si passa per i vari lavoretti (ripetizioni di francese, traduzioni di documentari e altri impieghi precari) fino alla nascita del blog e le prime felici pubblicazioni con Bao Publishing.
La storia del singolo e quella politica del paese degli ultimi vent’anni si mescolano: elezioni, manifestazioni, crimini fascisti costituiscono non soltanto lo sfondo della narrazione, ma si dimostrano materia stessa delle storie fumettistiche e della crescita di Zerocalcare, per cui l’impegno politico è da sempre spina dorsale e motore della produzione artistica. Nelle storie di Calcare vissuto personale e dimensione politica sfumano e si intrecciano di continuo. Il titolo della mostra fa riferimento proprio a questa dialettica tra esperienza autobiografica e collettività: “il botto” sta a indicare sia il successo individuale sia l’arrivo inaspettato della pandemia e dei drammi sociali che ne sono seguiti. Rech sente la responsabilità che deriva dalla fama, da sempre vissuta con una certa dose di scetticismo e imbarazzo.
“Credo che il fumetto, come tutte le forme di narrazione, sia un modo per costruire immaginario, memoria, coscienza”, afferma in una delle interviste riportate nella cronologia. Chi ha una voce ha il potere, e il dovere, di parlare e farsi sentire. Portando all’attenzione del mainstream storie ai margini come quelle della comunità ezida di Shengal e della città di Kobane, Calcare rimane fedele alla sua visione dell’arte: il fumetto è sempre questione politica e collettiva. Non a caso il cuore dell’esposizione, intorno a cui le varie aree tematiche si sviluppano, prende la forma di un grande cortile: i disegni di Rech trasformano le pareti in case e palazzine dalle cui finestre volti, umani e mostruosi, osservano in un misto di timore e curiosità la folla dei visitatori. Siamo davanti alla città post-pandemia, dalle porte chiuse e dalla paura serpeggiante. Per Calcare è inevitabile, davanti all’espansione del vuoto sociale, la “perdita di contatti fisici, la disgregazione delle comunità, l’avanzata dei populismi come reazione tradizionalista alle minacce d’insicurezza”, prendere in mano la matita e farsi testimone.
A chiudere il percorso sta una riflessione, significativa, che funge retrospettivamente da monito e guida: “Questa mostra esiste grazie a chi l’ha curata, montata, installata, imbullonata e a chi ha animato le esperienze collettive che io ho potuto disegnare. Fuori dalla collettività c’è solo la mitomania.”
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