«L’esperienza estetica è personale, può essere coerente o meno, e non dipende dall’opera che guardi. Dipende dalla chiave di lettura che inserisci, e più ne hai, più facilmente puoi trovare quella che ti dà un’esperienza più gratificante». Dr. Pira è uno dei fumettisti più originali dell’odierno panorama dell’arte. Tra archeologia spaziale ed ironia, alieni ed hip hop, abbiamo discusso con lui di estetica e di storia dell’arte, nel tentativo di proporvi più chiavi di lettura possibile per una nuova esperienza estetica.
Dr. Pira possiamo chiederti come nasce il tuo nome?
Mi hanno sempre chiamato tutti Pira perché è un’abbreviazione del mio cognome. Anche mio zio mi chiama così, per dire. Ci ho aggiunto il titolo di Dottore per darmi un tono, prima di ancora di laurearmi. Da quando mi sono laureato avrei dovuto chiamarmi Dr.Dr.Pira.
Arte e tecnica, sono due concetti imprescindibili?
Credo siano due concetti su cui si fa confusione, più che altro. In base al significato che dai a uno o all’altro, cambia tutto l’approccio. Se dovessi dare una mia definizione, direi che la tecnica è uno strumento per esprimere l’arte. L’arte invece è un modo per esprimere un riflesso di qualcosa che non può essere definito in nessun modo. E anche con una definizione simile si rischia di incappare in un concetto sterile e molto diffuso di “trascendenza dell’arte”, che fa pensare solo a una produzione molto “elevata intellettualmente”. In realtà si tratta di pratica, e la pratica è molto semplice. Sarebbe più facile sbarazzarsi del binomio arte-tecnica sostituendolo con un concetto più profondo di divertimento, secondo me.
Quale è l’origine dell’estetica delle tue opere? Pensi sia leggibile inequivocabilmente in chiave umoristica?
Dipende da che idea hai di umorismo. Generalmente l’idea di umorismo è ristretta alla satira, che è esattamente quello che io non ho mai fatto, anche perché non sono bravo come altri in quel campo.
La satira implica un attacco, e dover essere ogni volta legato a qualcosa da attaccare per fare dell’umorismo mi rende claustrofobico. Mi piace piuttosto pensare di poter disegnare o raccontare di qualsiasi cosa, prescindendo anche dei limiti condivisi di rappresentazione o di logica.
La differenza che ne risulta è come se da una parte ci fosse la risata che si fa quando si prende in giro qualcuno, e dall’altra quella che si può fare quando si guarda una caffettiera sotto LSD. Ho fatto l’esempio dei lisergici, perché oggi è più comprensibile. Ma credo che l’idea di commedia che c’era nell’antica Grecia non fosse molto diverso, in realtà. Era un superamento della tragedia attraverso la dissoluzione delle forme materiali: se il mondo materiale non ha significato, tutto fa ridere. Insomma, come vedi non so mai come definire questo genere di umorismo, in genere si dice “nonsense” ma non lo trovo accurato.
Quali sono stati i fumetti e fumettisti che ti hanno influenzato?
Non potrei dire che la mia influenza principale siano i fumetti, ma comunque ho strano misto di riferimenti. So a memoria Akira di Katsuhiro Otomo e mi piacciono diversi classici giapponesi come Osamu Tetsuka e Ishinomori, più diversi contemporanei che fanno manga pazzi (quei pochi che vengono tradotti, perlomeno). Mi piacciono molto i cloni italiani di Topolino usciti negli anni 60 e 70: Tiramolla, Miciolino, Tigrotto, e tutta quella produzione folle e oggi perlopiù dimenticata. E come influenza umana, i fumettisti che conosco, soprattutto il gruppo dei Superamici con i quali ho iniziato questa avventura.
La saga di Gatto Mondadory è una trilogia fantasy che nasce nel 2011, come prende vita questa idea?
Il primo Gatto Mondadory è stata la prima storia lunga che ho scritto, prima avevo fatto solo storie brevi, seppur a centinaia, ma mi serviva un altro approccio. Il nonsense destrutturato diventa noioso sul lungo termine, quindi mi serviva un qualche genere di struttura con cui mi trovassi a mio agio. Allora non sapevo un granchè di strutture narrative, perciò ho pensato di partire da quella che mi sembrava più semplice: la Quest dei fantasy. Allo stesso tempo, sono sempre stato convinto che le idee migliori vengono nei contesti giusti.
Spesso mi mettevo a disegnare in situazioni assurde per fare le storie brevi, perciò per scrivere un libro fantasy ho pensato che dovevo io stesso fare una Quest. Perciò sono partito per un viaggio a piedi di quasi 200km in Norvegia, nell’altipiano dell’Hardangervidda, portandomi dietro Lo Hobbit da leggere. Là ho scritto la storia, e appena tornato l’ho disegnata.
Poi ho fatto altri due volumi: trattandosi di fantasy è obbligatorio per legge fare almeno una trilogia. Anche per gli altri due libri ho fatto delle Quest, mi hanno aiutato molto. Nel frattempo ho iniziato a intripparmi di narrativa, mitologia e antropologia, ho letto per anni solo libri di saggistica.
La Vera Storia dell’Hip Hop edito da Rizzoli è un libro che unisce fantasia e assurdo nel mondo hip hop. Cosa hai scoperto sul Hip Hop? Stiamo davvero parlando di un complotto globale pilotato da intelligenze aliene?
Anche quel libro è una deriva pazza del mio trip per l’antropologia. Se applichi dei parametri antropologici a un ambito culturale gigantesco come l’Hip Hop, puoi arrivare facilmente a conclusioni fantascientifiche. In quel periodo ero molto preso dalla lettura di alcuni classici del mistero degli anni 70, un filone di cui l’autore più noto è Peter Kolosimo. Il tema principale era l’“archeologia spaziale”: reinterpretare reperti antichi come segni della presenza di razze aliene nel passato. Era un approccio molto affascinante. Non mi interessavano particolarmente le prove, ma mi piaceva molto il feeling di quel genere di letteratura. È molto diverso dal complottismo attuale, che principalmente parla della paura di essere controllati.
Il carro di Zeus poteva essere un disco volante? Le pitture rupestri raffiguravano alieni? Sono libri pieni di domande ma con poche risposte, e il piacere nel leggerli non sta nelle “prove inconfutabili”, ma nel fascino della questione. La molla che me l’ha fatto collegare all’Hip Hop è un incontro che ho fatto tanti anni fa a New York, dove due rapper (o meglio, un rapper e un produttore) mi hanno posto le stesse questioni con un tono piuttosto convinto.
Pensavo fossero due flippati, un’anomalia in una cultura legata solo a cose terrene, mentre in realtà non ci vuole molto a scoprire che alla base dell’Hip Hop ci sono un sacco di riferimenti agli extraterrestri. Dopo un po’, mi sembrava assurdo che nessuno avesse scritto un libro sull’argomento. Poi, sull’esistenza di un complotto interstellare lascio le conclusioni al lettore. Come nei libri di Kolosimo, sono più affascinanti le domande che le eventuali “prove inconfutabili”.
Super relax edito da Coconino ha vinto il premio Micheluzzi come miglior fumetto. Hai raccontato di averlo scritto in momenti di estrema distensione, il risultato è un fumetto “né comico, né serio, ma rilassante”, ti va di parlarci di questa nuova strada per il fumetto?
Fondamentalmente è una continuazione dell’approccio di cui parlavo prima. Non è nato in un periodo che si potrebbe dire rilassante, anzi: mi erano capitate diverse cose piuttosto traumatiche. In questo caso l’avventura che ho fatto partiva dalla decisione di essere comunque rilassato, anche perché se non sono in quello stato non riesco a scrivere niente di interessante.
Quindi, gli ostacoli da superare erano soprattutto all’interno – ma all’inizio è utile cambiare il contesto, perciò ogni giorno andavo a disegnare al mare. Anche se non sembrerebbe, è una forma di avventura: in quel momento non sapevo se quello che stavo facendo avrebbe avuto un senso, né se qualcuno l’avrebbe mai apprezzato – e di conseguenza, se ci avrei mai guadagnato qualcosa – ma andavo al mare comunque. Allo stesso tempo mi ero reso conto che un limite nei miei fumetti, in quel momento, era raggiungere la gag comica. Me l’ha fatto notare Ratigher, che è un ottimo curatore.
Avevo cominciato a scartare le storie che non avevano un risvolto comico di base, e questo alla lunga ti rinchiude in un genere. Dopo un po’ mi sono reso conto che effettivamente non era necessario. Si poteva benissimo raccontare qualcosa che uscisse dalla solita dicotomia tra serio e faceto, che di fatto affligge la letteratura occidentale. In sostanza, quel libro l’ho disegnato solo pensando a godermi il momento in cui disegnavo, senza preoccuparmi del risultato. Non ho una spiegazione logica per la trama, certe parti non le capisco nemmeno io. Averci vinto un premio è stato molto bello e inaspettato: pensavo che puntare a un premio presupponesse uno sforzo e un risultato, e invece mi sembra che mi abbiano premiato perché mi sono goduto la vita. È Come se avesse vinto il relax.
Jonathan dimensione estetica è una serie di streaming settimanali in cui inviti lo spettatore ad intraprendere un viaggio estetico attraverso la storia dell’arte verso un nuovo livello di percezione. La serie analizza vari approcci alla rappresentazione della realtà: dalle leggi della percezione fino alle teorie sulla composizione passando per la sezione aurea. Cosa vuol dire per te fare un’esperienza estetica?
Mi sono molto divertito a fare quella serie, vorrei continuarla ma prende un sacco di tempo, prima o poi mi ci rimetterò. Principalmente, quelle di cui parlo sono le ricerche sull’estetica che ho fatto per i fatti miei, a scopo pratico. Non so se quello di cui parlo ha una validità accademica, ma non è quello lo scopo: ho sempre fatto ricerca per trovare nuovi spunti sul disegno e sulla rappresentazione grafica, mi serve per avere nuove idee con cui giocare.
Ho accumulato materiale per vent’anni e non mi interessava parlarne pubblicamente, perché temevo che la cosa sarebbe stata presa come una forma di autolegittimazione. Poi mi sono reso conto che troppo spesso annoiavo persone a me vicine con discorsi senza fine sull’estetica e sull’arte, quindi ho deciso di trovare un canale di sfogo. Spiegare ad altri è un ottimo modo per chiarirsi le idee. Così, parlandone, mi sono reso conto che una cosa è fare critica d’arte, un’altra è goderne. Per goderne, quello che serve soprattutto sono contesti e chiavi di lettura, non analisi.
Per dire, non ho mai apprezzato Kafka dalla prospettiva della critica letteraria, ma quando ho letto che Kafka stesso leggeva pezzi della Metamorfosi ai suoi amici ridendo, mi è tornato subito interessante. L’esperienza estetica è personale, può essere coerente o meno, e non dipende dall’opera che guardi. Dipende dalla chiave di lettura che inserisci, e più ne hai, più facilmente puoi trovare quella che ti dà un’esperienza più gratificante.
Ritieni che si tenda ad avere una percezione estetica distorta dell’arte primitiva?
Credo di sì, se la si guarda da una sola prospettiva ristretta. È noioso fare dell’analisi critica sul risultato, come se quelle opere fossero esposte in un museo. Credo sia molto più bello andarsi a immaginare quali fossero i contesti e l’utilizzo, che era prevalentemente rituale, e provare a immedesimarsi senza la tentazione del “paternalismo storico”. I rituali erano quelli del passaggio all’età adulta, che se considerati in modo più approfondito parlano del superamento della paura della morte.
Un problema non da poco, che oggi è stato rimosso e ha preso la forma dell’onnipresente ansia. Se pensi che soluzione più diffusa oggi sono gli psicofarmaci, direi che non si sono fatti grossi passi avanti. Farsi un viaggio approfondito nell’arte primitiva può portare a spunti diversi, secondo me, e le pitture rupestri sono solo un punto di partenza. Ma il punto di arrivo è una questione individuale.
Ho intervistato un mio amico artista, 108, e lui ne ha una percezione molto profonda. Io non saprei spiegarti cosa mi immagino quando guardo le incisioni rupestri, e non so se siano conclusioni “corrette”, ma esprimo tutto nei fumetti e nei disegni.
Credi ci sia una discriminazione del fumetto nell’arte contemporanea, rispetto alla sua originaria funzione narrativo-descrittiva?
Credo che l’arte contemporanea si sia un po’ chiusa in sé stessa diventando autoreferenziale, e la stessa cosa è successa nel fumetto. In realtà, le cose più interessanti vengono fuori mischiando le carte, ma mi pare che qualcuno inizi ad accorgersene.
Avevo proprio questo in mente quando ho scelto di collaborare con Nero per l’autoproduzione più grossa che ho fatto qualche anno fa, l’Almanacco dei Fumetti della Gleba. Loro vedevano la questione alla stessa maniera.
Sei stanco di quello che vedi?
A volte sì, ma per fortuna mi sono reso conto che capita solo quando sto guardando dalla parte sbagliata, o nella maniera sbagliata, quindi quando mi capita mi sposto. Credo sia impossibile annoiarsi nei tempi che stiamo vivendo, basta avere voglia di andarsi a cercare il giusto stimolo. Non serve nemmeno uscire di casa.
Quando non c’era internet ed ero stanco della provincia prendevo il treno per andare a comprare i dischi punk e le fanzine di graffiti, o per andare ai concerti. Credo non mi basterà la vita per vedere, leggere e ascoltare tutto quello che vorrei.
Pensi ci sia l’esigenza di una riscrittura della storia dell’arte, partendo proprio da una nuova esperienza estetica?
Non saprei, forse basta cambiare l’approccio. D’altronde l’idea che mi sono fatto di esperienza estetica l’aveva già esposta meglio James Joyce un secolo fa, dal punto di vista teorico. Forse serve solo uno scopo diverso dall’analisi, un’idea più ampia di piacere e di divertimento, che non sia solo il semplice intrattenimento, perché chiunque si annoia di cose superficiali.
Ed essendo un’esperienza, non si può spiegare, si può solo vivere, e per quello basta avere gli strumenti e la voglia di farlo. Non puoi spiegare il piacere di sciare a qualcuno che non l’ha mai provato, ma se gli dai degli sci e una montagna è più facile che ci arrivi.
Quali sono i progetti per il futuro?
Non saprei dirti, perché ne ho troppi. Non riesco a regolarmi. Sto lavorando a tre libri diversi, e mi dico che dovrei concentrarmi su quello, ma qualche tempo fa mi sono rimesso a fare delle tele (avevo smesso anni fa) e certi giorni non riesco a non mettermi a dipingere. Man mano che finirò delle cose, usciranno. Nel frattempo continuerò a divertirmi.
Dottor Pira, alias Maurizio Piraccini, è nato a Tortona nel 1977. Fumettista, grafico e autore televisivo italiano, ha realizzato grafiche e animazioni per gruppi musicali come Uochi Toki, Fedez ed Elio e le Storie Tese. È inoltre il creatore di uno dei primi portali di webcomic italiani (I Fumetti della Gleba). Nel 2016 ha presentato, con prefazione di Achille Bonito Oliva, L’Almanacco dei Fumetti della Gleba con NERO Edizioni.
Ha realizzato nel 2018 l’albo Ippocrate e Jones per il parco archeologico di Paestum, nell’ambito del progetto Fumetti nei Musei promosso dal MiBACT con Coconino Press e ha realizzato il racconto a fumetti del Red Bull Music Festival di Berlino. Nello stesso anno Coconino Press pubblica Super Relax スーパー・リラックス Ultra HD 1080 con la quale vince il Premio Micheluzzi come miglior fumetto al Napoli Comicon 2019 e la candidatura a miglior copertina al Treviso Comic Book Festival 2018
Nel marzo 2020 firma una delle tavole dello speciale di Robinson de la Repubblica del 28 del mese dedicato all’emergenza coronavirus. A giugno 2020 Feltrinelli Comics pubblica il libro Topo e Papero fanno le avventure. Attualmente insegna Animazione presso lo IED di Roma.
«Il giudizio di gusto consiste proprio nel chiamar bella una cosa soltanto per la sua proprietà di accordarsi col nostro modo di percepirla», Immanuel Kant.
Per le altre puntate di The Undergroud, la nostra guida all’esplorazione dell’arte diffusa al di là dei circuiti convenzionali, per scelta o per caso, potete cliccare qui.
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