Due o tre cose che so di Paz

di - 6 Novembre 2020

Intorno ad Andrea Pazienza pittore e fumettista, le polemiche sono state aspre «prima e dopo la nostra rivoluzione del 77». Gli hanno rimproverato di non lavorare secondo la tradizione del sistema dell’arte che di lì a poco tentava il riflusso; di introdurre la politica dei versi e dei fumetti e non saperla poi gestire nella prassi militante; di inventare, come altri compagni della mia generazione, formule poetiche sovversive e regressive insieme. In effetti, è stato tanto attivista della satira, quanto di una pittura semplice e diretta, che recuperava l’icona post-pop e post-iperrealista, coniugando incendiari e pompieri sullo stesso fronte. In alcuni momenti, la distanza dal sistema delle arti è stata addirittura feroce, non c’era moderazione che tenesse il passo di tale fermento.

Zanardi di Andrea Pazienza

Pier Vittorio Tondelli ebbe il tempo di scrivere di lui: «Andrea Pazienza è riuscito a rappresentare, in vita, e ora anche in morte, il destino, le astrazioni, la follia, la genialità, la miseria, la disperazione di una generazione che solo sbrigativamente, solo sommariamente chiameremo quella del ‘77». Nato nel maggio 1956 e morto nel giugno 1988, insieme a Igort, a Stefano Tamburini et alias, è stato l’indiscusso caposcuola del nuovo fumetto italiano, ha lavorato in tutti i campi del disegno e dell’illustrazione. Pazienza era un emotivo, un viscerale e un sensibile delle arti visive, tra le sue opere a fumetti è d’uopo ricordare: Le straordinarie avventure di Pentothal, il ciclo di Zanardi e Pompeo. Ma perché un’intera generazione si è profondamente riconosciuta nelle storie di Zanardi? Perchè Zanardi è quello dell’ortodossia scettica e contemporaneamente è consapevole del proprio «timismo», della “propria dannazione” e soprattutto di una storia che inizia in una emozionalità pittorica ambigua, come quella dei «quadri di Penthotal», come Andrea stesso li chiama.

Andrea Pazienza, il pittore prima del fumettista

E, certo, Pazienza era un artista a tutto tondo e, prima di essere fumettista-ingombrante, è stato un pittore che ha agito col “plesso solare”, dipinto col corpo e ha affermato che la forma espressiva coincide con il “kiai” (pratica di concentrazione kendo: equilibrio corpo-ambiente e natura della comunicazione). Insomma un perfetto medialista! La sua energia eretica contro il mondo letterario e artistico-visivo del passato, contro i burocrati di ogni genere e contro il decadentismo dei “maestrini” trash della nuvolaglia fumettocratica, non sopportava mezzi termini. Del suo amore per Il ritratto di Dorian Gray e per la tautologia del pennarello, ad esempio, è pronto a dire in una sorta di monologo postumo: «…sbordare, l’importante è, leggendo una storia, se ne rimani emozionato, condizionato o meno … bisogna opporsi al potere dell’editore … l’amore può essere considerato un depauperamento generale delle motivazioni. Oggi ho capito che non mi interessa il presenzialismo. Anzi voglio rimarcare la mia assoluta inaffidabilità. Il corpo è per l’artista un teatro di operazioni, l’ambito di una ricerca, un modello sempre a portata di mano e a buon mercato, un robot, l’avvio di una investigazione, la verifica del gesto, il veicolo dell’Arte e le arti altre … il segno è una metafora meravigliosa, nasce dalla matematica … Paperino, Karl Barks, Rembrandt, i futuristi, alcuni dada. Poi c’è Caravaggio, con questi si è entrati in quella che è la disciplina del rapporto con i materiali e cioè si disegna bene un materiale solamente. Poi c’è Canaletto, la meridionalità alla Mohammed Alì, le letture dei dadaisti, le Vite del Vasari, una rivista diretta da Giovanni Arpino, a memoria il Manifesto di Tzara, i Cabaret Voltaire, Lenin a Zurigo. Le domande su quali erano stati gli incontri tra Marinetti, il Duce, D’Annunzio e quale rapporto ci fosse tra Futurismo e Fascismo, Boccioni, e infine Castaneda, Kerouac e Marquez. Riesco ad apprezzare anche Diana Ross se ha grinta, i Police, i Dire Straits, i Queen e Keith Richard. I film Ultimo tango a Parigi e La città delle donne, dopo che ho disegnato il manifesto».

Andrea Pazienza, illustrazione per La città delle donne di Federico Fellini

Pazienza è un artista controverso, perché radicalmente post-moderno e nel contempo settantasettino, ma con tutte le contraddizioni del modernismo. Andrea concepiva l’artista attivamente inserito nella piccola industria culturale italiana e odiava gli atteggiamenti fanatici, ispirati troppo da un lato dai Maledetti o dall’altro dai positivisti. Per questo, gli piaceva profanare il tempio della poesia e dell’arte engagée, così come quella troppo schierata in una dimensione incomprensibilmente loisir. Per questo, disegnare sentimenti troppo controversi era il modo per avvicinarsi a riferimenti, ma anche di tenerli a bada, come Sid Vicious e il Futurismo più oltranzista. Insomma, PAZ non aveva la consapevolezza concettuale alla Pablo Echaurren, ma lo spirito d’avanguardia o di tarda neoavanguardia che lo animava – uno spirito alimentato da una vivace vena grottesca – reagiva all’indolenza di un clima estetico, al conformismo che oggi lo vorrebbe giustificatore di naziskin. Tale spirito, strettamente connesso alla sua impresa cubofuturista, fa parte della fisionomia creativa che è tra i prodromi, insieme all’area dei Cannibali, della Pittura Mediale italiana che negli stessi anni si riversa nell’esperienza di una miriade di artisti tra cui Fabrizio Passarella, Bruno Zanichelli, Pierluigi Pusole e poi Gabriele Lamberti, Santolo De Luca, Luigi Mastrangelo, Antonella Mazzoni, Enrico de Paris. Fare un’arte mediale a partire dalla pittura, ecco quale senso si deve dare alla militanza libertaria di Andrea Pazienza, vicina al metodo degli indiani metropolitani e non alla pratica politica di alcuni fumettisti italiani di chiara marca funzionaria o funzionalistica dell’industria culturale.

Andrea Pazienza al lavoro

La casa editrice Fantagraphic di Seattle, che nel 2017 ha pubblicato la prima edizione americana di Zanardi, lo definisce “un fumettista rivoluzionario che ha inaugurato una sensibilità underground nei fumetti italiani ed europei, rompendo la più consolidata tradizione”. Sulla rete dei social, invece, negli ultimi tempi, abbiamo assistito ad una rivalutazione della figura di Andrea da parte di Editori e politici di dubbia provenienza che, puntando equivocamente su alcune dichiarazioni della celebre poesia Amo, improvvisata da Pazienza negli anni dei fermenti di Bologna ‘77, da libertario riescono a farlo passare per simpatizzante di destra. L’improvvisazione era parte integrante della poiesis di quegli anni e raccoglieva tutto il mainstream storico d’opposizione. È vero che in quelle paginette a quadretti emergono Lovecraft, i fascio-futuristi, Ezra Pound e tanta altra roba cara alla destra, che ha attraversato le avanguardie storiche del ‘900, ma l’errore sta nel non capire lo stato d’animo di un momento Punk irripetibile. Probabilmente oggi Andrea sarebbe stato un estintore, così come allora era uno dei tanti indiani metropolitani, uno dei tanti appassionati, ma non certo attrezzati per riscrivere la storia o fare opera di revisione. Quindi sarebbe meglio leggere quella esperienza nello spontaneismo della sua autentica rivelazione storica, nella sua autentica predisposizione dada. Rileggendo quelle righe oggi, senza essere disperatamente apocalittici, ma neppure stupidamente integrati nel sistema, è difficile non comprendere il senso che prende davanti a certe situazioni della nostra vita attuale. Ed è difficile non riflettere su problemi, come quelli di attualizzazione ideologica di certi umori politici della fine degli anni Settanta. Si è tanto parlato del concorso di diverse culture che hanno fatto presa su quel movimento, però da qui a dire che Pazienza potesse avere simpatie distorte, non tiene conto che la distorsione serviva proprio a sbordare.

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